Nel mese di giugno ha suscitato attenzione, arrivando fin sulle cronache nazionali, una piccola querelle a sfondo storico svoltasi a partire dal caso di un liceo scientifico di Pistoia, intitolato tuttora ad Amedeo di Savoia duca d’Aosta. A prima vista potrebbe apparire come una discussione poco più che burocratica, e quindi di scarso interesse, ma a ben vedere si tratta di un utile caso di microstoria del tempo presente, capace di fornire chiavi di lettura su cosa ha da dirci questa discussione pubblica sul rapporto fra miti e storia, sullo spinoso tema della cancel culture e su cosa sia la storia in vicende come questa.
Partiamo dai fatti. Il 10 giugno 2022 arriva alla stampa la notizia della proposta di un docente finalizzata a cambiare nome al Liceo scientifico di Pistoia, dedicato nel 1942 ad Amedeo di Savoia, tra le altre cose generale dell’aeronautica durante il regime fascista e viceré di Etiopia, morto proprio quell’anno in un campo di prigionia inglese dopo la resa dell’Africa Orientale Italiana. Le motivazioni addotte del professore riguardano la “collusione” di Amedeo (e dei Savoia più in generale) con il fascismo e il richiamo alla monarchia, specificando che Amedeo “di quel regime, se non un esponente, è stato comunque un illustre rappresentante” e vi è rimasto “sempre fedele”. La proposta contiene anche un’alternativa: “Potrebbe essere l’occasione per diventare la prima scuola superiore pistoiese e una delle pochissime in Toscana a portare il nome di una donna”.
Seguendo l’iter del caso, la proposta approda il 17 giugno al collegio dei docenti che l’ha fa propria, inoltrandola al Consiglio di istituto. Un procedimento legittimo e democratico che a cose normali si sarebbe risolto in una discussione interna alla scuola. Successivamente, il 30 giugno, il Consiglio di istituto respinge la proposta senza fornire motivazioni, a quanto è noto. In mancanza di queste ultime non siamo in grado di entrare nel merito della scelta finale della scuola, ma la partita sul nome è stata aperta e non sembra destinata a chiudersi qui. Infatti non è questa la prima volta in cui è stato posto il problema del nome, anche se solamente adesso il tema è arrivato a un punto così avanzato e all’onore delle cronache. Ma nei venti giorni che separano la presentazione della proposta dalla bocciatura si sono scatenate una serie di reazioni, arrivate all’attenzione nazionale, che meritano di essere approfondite.
Da una parte i favorevoli, non etichettabili politicamente in maniera univoca, che hanno accolto senza indugi i motivi addotti per giustificare il cambio del nome e si sono concentrati sulla nuova intitolazione, dando vita sui social al toto-nomi per il futuro da cui sono emerse idee per intitolare la scuola a donne di scienza, come Margherita Hack o Rita Levi Montalcini, o al matematico locale Enrico Betti – che una scuola a lui dedicata l’aveva fino a quando non è stata accorpata – a cui in un secondo momento si è unita anche l’Anpi locale.
In mezzo, molti esponenti della sinistra moderata che hanno adottato posizioni perplesse, un po’ infastidite dalla discussione apertasi, riassumibili nella formula “si, no, ma, però” e che confermano quanto la ben più nota vicenda della giornata nazionale degli alpini, fissata al 26 gennaio, anniversario della battaglia di Nikolaewka nella guerra di aggressione fascista all’Urss non sia stata un semplice incidente di percorso ma la spia di un rapporto con la storia che è andato in frantumi. Finita l’esperienza dei partiti storicisti del Novecento, l’attuale sinistra moderata sembra far molta fatica a costruire un rapporto con la storia capace di esprimere una visione autonoma (come è evidente anche intorno al 10 febbraio), un po’ perché erede dell’impostazione data dai partiti della Prima Repubblica a questi temi, che li aveva separati dal fascismo, un po’ perché costruire un rapporto con la storia porterebbe inevitabilmente a dei nodi, soprattutto per quanto attiene alle traiettorie dello sviluppo storico dell’ultimo cinquantennio, probabilmente scomodi e politicamente pericolosi.
Infine si sono stagliati i contrari, divisi al loro interno. Da un lato tanti e tante hanno espresso una posizione di tipo genericamente conservatore, di affezione al nome della scuola, che segnala quanto in questi casi il conservatorismo sia un fenomeno culturale da tenere fortemente in considerazione, non etichettabile politicamente, e ambiguo in quanto passibile di operare in ogni direzione. Dall’altro lato la destra, che si è lanciata a capofitto sul tema aprendo di fatto la polemica, spendendosi ad argomentare “storicamente” la propria posizione e qualificandosi con aggressive richieste di avere il nome del docente “colpevole”, cosa che avrebbe evidentemente scatenato la solita ondata di squadrismo a mezzo social network contro l’insegnante. Sono soprattutto queste ultime reazioni a interessarci di più, in quanto foriere di illuminare pezzi importanti del discorso pubblico a sfondo storico – che è sempre discorso politico – promosso dalla destra. Un discorso che si è articolato su due livelli interconnessi: la denuncia dell’ignoranza storica su Amedeo e il grido alla cancellazione della storia, alla cancel culture.
Al primo livello le argomentazioni sono riassumibili in questo schema: Amedeo di Savoia era estraneo al fascismo, fu l’eroe dell’Amba Alagi, un buon padre per i suoi soldati, fiero combattente ebbe anche l’onore delle armi da parte del nemico e morì per la sua patria in Africa. Non è mancato chi lo ha definito strenuo oppositore di Mussolini e chi ha azzardato la fantasiosa tesi di un regime fascista che nel 1942, quanto ancora sperava di vincere la guerra, sceglieva di intitolare la scuola ad Amedeo in quanto personaggio super partes. Immancabilmente i fautori di questo schema hanno accusato di ignoranza storica chi aveva fatto la proposta, invitandolo a leggersi la storia, promuovendo anche petizioni in difesa dell’intitolazione.
Infine, sempre su questa falsariga, si è unito al coro l’attuale esponente dell’ex real casa Aimone di Savoia, e a rincarare la dose è arrivato anche “Il Giornale”, che ha provveduto a pubblicare una summa di questi argomenti, arricchita dalle osservazioni di un consigliere comunale di Fratelli d’Italia che parla di “un esempio lampante di cancel culture basato su grossolane inesattezze storiche che non fa altro che gettare fango su un eroe decorato che appartiene alla Storia di tutti”.
Di fronte a questa ricorrenza di argomenti il dato che in realtà balza agli occhi è che la storia dice altre cose e che queste argomentazioni non sono storiche, ma epiche, non parlano di storia ma di un mito. Quasi un martire, che qualcuno prova a suggerire fosse addirittura in odore di antifascismo. Ma la storia e la mitologia come è noto sono due cose diverse. Se le narrazioni epiche prendono a fondamento elementi storici anche reali per costruire i loro miti, la storiografia muove proprio dalla decostruzione di tali miti per restituirci la storia.
Tuttavia chi si nutre di miti non ha la necessità di documentarsi, proprio perché il discorso mitologico si autolegittima da solo, generando una serie di corti circuiti argomentativi: Amedeo di Savoia Aosta viene slegato da tutta la sua storia precedente e ridotto solo alla fase finale, rimuovendo la carriera sotto il Regime come generale dell’aviazione e collaborando con Graziani nella feroce repressione della Resistenza libica fra anni Venti e Trenta, guadagnandosi l’appellativo di “Principe sahariano”; si salva il ramo dei Savoia Aosta in quanto “distaccati” dal fascismo, ovvero intenti a farsi gli affari propri, il che equivale a sostenere che essersi fatti gli affari propri di fronte al fascismo durante tutto il lungo corso del suo ventennio, e quindi essersi fatti andar bene lo squadrismo, le leggi fascistissime, le leggi razziali, le guerre ecc. sia un attestato di estraneità e non di accettazione; la figura dell’eroe dell’Amba Alagi diviene il cardine di una narrazione che autoassolve dalla compromissione con il fascismo quello che oggettivamente è un protagonista della guerra fascista in Africa orientale; si utilizza un mito e una narrazione epica spacciandola per storia e accusando di non conoscere la storia chi, seppur in maniera stringata, ha portato a suffragio della propria proposta argomenti storicamente fondati.
Infatti, senza andare troppo in profondità ma limitandosi a una semplice ricerca su Google, ci si imbatte invece nella voce a lui dedicata nel 2018 dal Dizionario biografico degli italiani Treccani a firma dello storico Nicola Labanca, dove si ricorda come fu lo stesso fascismo a costruire il mito di Amedeo. Qui la storia di Amedeo è ricostruita puntualmente per intero, con tutta la sua complessità, evidenziando l’autonomia del suo percorso – cosa peraltro normale per un membro della real casa – e i suoi dissidi, ma anche la capacità di costruirsi una carriera militare dentro al fascismo puntando su elementi cari al regime: l’aeronautica e l’Africa. Alla fine la valutazione di Labanca sul personaggio storico e sull’uso che ne è stato fatto appare chiara: “La morte di un principe della casa regnante, sia pure di un ramo cadetto, non era vicenda da passare sotto silenzio. La propaganda del regime accusò la Gran Bretagna di barbarie, la pubblicistica militare incensò ‘l’eroe dell’Amba Alagi’, e i circoli più vicini agli Aosta – e gli ambienti più sensibili al mito coloniale – misero da parte l’icona (guerresca ed esotica) del ‘principe sahariano’ per porre l’accento su quella del colonialista moderato, ‘buono’. Come in tutti i miti, anche in questo c’erano aspetti veri, ma nel complesso si trattava di un mito falso, o falsificabile: in fin dei conti, Amedeo aveva partecipato alle campagne di riconquista della Libia, aveva aiutato il fascismo accettando la carica di viceré di Etiopia, aveva taciuto sulla legislazione razzista coloniale, e non aveva voluto passare dalla parte delle potenze antifasciste, decidendo di combattere sino in fondo la guerra promossa dal fascismo”.
Insomma, appena si prova ad alzare il velo dell’epica su Amedeo, sotto ci troviamo tutto quello che nasconde. Pertanto qualsiasi discussione pubblica sulla opportunità o meno di mantenere la titolazione della scuola ad Amedeo di Savoia duca d’Aosta sarebbe dovuta partire da qui, dal terreno duro dei fatti e della ricerca storiografica, iniziando a mettere da parte un apparato di narrazione epica della storia giunto fino a noi e che mostra sempre più la corda, soprattutto quando si tratta di storia del colonialismo e di storia militare, dove la retorica diventa spesso un fattore distorsivo di prim’ordine e dove si continua a negare alle popolazioni africane la dignità e la capacità di agire in maniera autonoma e legittima negli scenari storici. Ma questo a quanto pare è proprio il terreno su cui la destra non vuole scendere. Anzi, tutta questa vicenda riflette proprio il dato che da destra si sta favorendo una ripresa della narrazione storica di tipo mitico, che non è nuova per argomenti riprendendo i filoni di epoca fascista in più occasioni: sulla grande guerra, sulle foibe, sul colonialismo italiano. Solo per citarne alcuni. Una pratica su cui è necessario prestare la massima attenzione in quanto si sta dimostrando finemente pervasiva, che è poi una delle caratteristiche tipiche dell’epica.
Contestualmente, come ricordavamo, si è agitato anche lo spauracchio della cancel culture. Gli storici e le storiche conoscono bene i meccanismi, a volte anche orwelliani, con cui su base politica si interviene sulla storia per far scomparire quello che è sgradito o considerato pericoloso o per riscriverne il significato nei termini desiderati. E sanno anche che molto più spesso sono all’opera nella società meccanismi più sottili e meno visibili che portano alla rimozione, all’oblio di pezzi interi e centrali della storia dal dibattito pubblico e dal bagaglio culturale della popolazione, per spinte diverse. La storia del movimento operaio, ad esempio, ad oggi è senz’altro una storia pubblicamente rimossa e dimenticata; cancellata dovremmo dire, se usassimo le categorie di chi lancia tali accuse. Ma potremmo anche ribaltare il discorso su Amedeo di Savoia per dire che quella che è stata cancellata è la storia del colonialismo, mentre quella di Amedeo è stata sostituita con un mito. E basterebbe questo a sottolineare la strumentalità di tali argomentazioni.
Oltretutto il richiamo ossessivo alla cancel culture a ben vedere in questo caso non aveva nemmeno ragion d’essere. Il punto è che la partita si è giocata proprio su un altro campo. Non ci siamo trovati infatti di fronte ad atti che possono essere categorizzati come censori, asserviti a una dittatura del politicamente corretto o che mirano moralisticamente a nascondere tracce del passato. E non si è lambito nemmeno da lontano l’abbattimento di statue, di monumenti o lo stravolgimento della odonomastica, dove comunque il dibattito sugli interventi di risignificazione e ricontestualizzazione sta facendo importanti passi in avanti. Qui si stava parlando di un istituto scolastico che affrontava democraticamente una discussione sull’opportunità di cambiare o meno la propria denominazione, ricevuta in eredità da un sistema politico precedente, il regime fascista, e che nel farlo, lungi dal cancellare il passato, provava a innescare proprio una riflessione partecipata su cosa sia stata e cosa rappresenti oggi quella storia.
Peraltro gli attuali ossessionati dalla cancel culture dovrebbero prendere atto del fatto che il cambiamento di denominazioni non è niente di inedito, e non dovrebbe nemmeno destare scandalo. Parlare di cancellazione della storia è quindi del tutto fuorviante. Basti pensare al noto caso di San Pietroburgo. La città cambiò nome in Pietrogrado con l’inizio della prima guerra mondiale, per poi divenire Leningrado in seguito alla rivoluzione del 1917 e tornare infine alla denominazione originale in seguito a un referendum nel 1991. Ma potremmo anche citare la scelta della Chiesa cattolica di rimuovere dalla liturgia del venerdì santo il riferimento ai “perfidi giudei”, che certo non fu un atto di cancel culture ma l’ammissione di una responsabilità nel favorire l’antisemitismo che richiedeva una correzione e una presa di coscienza.
Per restare sulle titolazioni, dall’Unità d’Italia in poi ci sono state almeno tre ondate di cambi di denominazioni. La prima a seguito dell’Unità, con gli odonomi e le titolazioni sabaude e risorgimentali che sostituirono le precedenti denominazioni, la terza con l’avvento del fascismo che ovviamente intervenne in materia costruendo la propria memoria pubblica (e l’intitolazione del liceo scientifico rientra in questo filone) e la terza dopo la seconda guerra mondiale, quando nel nuovo quadro repubblicano furono sostituite molte denominazioni sabaude e fasciste. Per restare a Pistoia, nel 1947, durante il corteo del Primo maggio i lavoratori furono autori di un atto che intitolava la strada principale del centro storico a Bruno Buozzi, il sindacalista socialista assassinato dai nazisti in fuga da Roma. Oggi, se si percorre quella strada, si può leggere la targa “via Bruno Buozzi già via San Martino della battaglia”. Di soluzioni come quest’ultima, senz’altro utili perché mantengono la traccia della trasformazione, si trovano esempi lungo tutta la penisola italiana. A ogni modo nessuno può sostenere in buonafede che questi cambiamenti di denominazioni abbiano cancellato dalla storia il Risorgimento, i Savoia e il fascismo.
Semmai da questi luoghi è passata proprio la storia. Lungi dal cancellare, questi cambiamenti sono “la storia”, da sempre, ed è con questo sguardo che li dobbiamo osservare. La storia non è fissità ma mutamento, e il mutamento ci è testimoniato proprio da questi cambi di intitolazione, che lasciano sempre traccia di sé. Ci raccontano l’avvicendarsi dei sistemi politici e delle sensibilità culturali, la costruzione di nuove memorie pubbliche in sostituzione delle precedenti. Ci dicono molto, e questo è centrale, su quali siano le identità attorno a cui si costruisce, dall’alto o dal basso, una determinata società, locale o nazionale, sulle forme della propaganda, sui valori presi a riferimento.
Da questo punto di vista la vicenda del liceo scientifico ci parla in due direzioni. In un senso ci fa cogliere che la sensibilità politica e culturale verso la storia del colonialismo e di Amedeo di Savoia era diversa in passato e probabilmente non costituiva argomento meritevole di intervento. Quella memoria pubblica evidentemente per una lunga fase è stata trasparente, invisibile, silenziosa. Poi le cose sono iniziate a mutare, e non da ora. Da un’emersione di memorie sui social è apparso come periodicamente dentro la scuola si riproponga il tema del cambiamento del nome. Questa piccola vicenda è dunque la spia della storia di un cambiamento, iniziato nell’ultimo quarto del 900 che ha investito il posto che il colonialismo occupa nella storia italiana, le sensibilità e lo stesso discorso politico.
Nell’altra direzione le polemiche dell’attualità che scalano rapidamente i media nazionali ci fanno a loro volta cogliere che si è aperto da tempo un conflitto strategico sulla memoria pubblica, che rilancia ancora una volta una lotta incessante per l’egemonia politico-culturale nello spazio pubblico, in cui la posta in gioco è la storia in cui la Repubblica intende riconoscersi e, in ultima analisi, l’identità stessa della Repubblica, i suoi riferimenti, i suoi valori fondanti. Un conflitto dove chi oggi da destra grida alla cancel culture quando e come può opera nella stessa direzione, a conferma della strumentalità dell’accusa. Basti ricordare, per restare alla microstoria pistoiese, un’iniziativa di CasaPound nel 2009 che, con un blitz notturno, cambiò le targhe di via Sandro Pertini per intitolarla ai martiri delle foibe. Un gesto che non si preoccupò di utilizzare i canali democratici passando direttamente a un atto illecito, e rivendicato a mezzo stampa dal responsabile locale (se ne trova ancora traccia su questo blog), lo stesso che si è appena candidato alle comunali con la coalizione vincente nella lista della Lega. In quel caso però nessuno gridò alla cancel culture, comprendendo benissimo che la posta in gioco era un’altra.
La battaglia sulla memoria pubblica è dunque trasversale, circostanza che basta di per sé a rivelare la strumentalità delle accuse di cancellatori della storia mosse da destra. Da una destra che si è subito preoccupata di far diventare un caso, prima locale e poi nazionale, la questione del nome del liceo ripetendo il mantra della cancel culture che, a quanto pare, dopo la teoria dell’ideologia gender, è diventato il nuovo spauracchio da imporre nel dibattito pubblico e da addebitare agli avversari, condito con una costruzione di discorso politico aggiuntiva. Se si scorrono i commenti sui social ai post dei giornali locali sulla vicenda, non si fatica a imbattersi in rabbiose considerazioni contro la sinistra accusata di perdere tempo dietro a queste cose e di non occuparsi dei problemi seri, quelli veri. Ma in realtà da sinistra non si era mosso niente, non era in corso una campagna di mobilitazione sul nome della scuola, è stata l’iniziativa di un singolo, e chi ha “perso tempo” a costruire le barricate contro quello che sarebbe stato un semplice procedimento amministrativo è stata proprio la destra che poi ha accusato la sinistra di far perdere tempo. Un raffinato ribaltamento della realtà.
Per concludere, ci preme ricavare anche un’indicazione metodologica utile per le discussioni a venire. Nella contesa sul nome del liceo scientifico non è stata prestata attenzione, se non en passant, a un aspetto decisivo che ci porta a retrodatare l’inizio di questa battaglia: la data di intitolazione della scuola, il 1942. Non disponiamo purtroppo di ricerche storiche capaci di illustrare il processo attraverso il quale si arrivò all’epoca a questa scelta. Ma qualcosa possiamo comunque dire. Prima di tutto che avvenne in epoca fascista, con il regime saldamente al potere che ancora pensava, o quantomeno sperava, di uscire vittorioso dalla seconda guerra mondiale. E che tale scelta, dal punto di vista del regime, camminava nel solco dell’opera di costruzione di una memoria pubblica che il fascismo aveva avviato fin dai suoi esordi per tramandare al futuro gli eroi fascisti e delle guerre fasciste. La titolazione ad Amedeo rientra in questo quadro, da tenere bene a mente, perché uno degli elementi di cui è necessario essere consapevoli è il fatto che proprio quella titolazione rappresenta una sopravvivenza della memoria pubblica costruita dal fascismo: una sopravvivenza che, se è stata a lungo muta, come si è visto è ben lungi dall’essere neutralizzata. Non è pertanto paragonabile a quegli elementi appartenenti a civiltà del passato che sono arrivati fino a noi perdendo il loro apparato narrativo originario per acquisirne uno nuovo costruito dalle società umane successive. Quella titolazione, e le altre memorie pubbliche del fascismo e del colonialismo sopravvissute, ancora sono capaci di riprendere a parlare proprio nella lingua epica a cui il fascismo pensava. Ed è con questo che ci si deve oggi iniziare a confrontarsi.
Stefano Bartolini, direttore della Fondazione Valore Lavoro e responsabile degli archivi Cgil Toscana
Pubblicato martedì 26 Luglio 2022
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