Per parlare di “donne e lavoro” prendiamo spunto da una notizia recente oltre la drammatica cronaca nera: il premio Nobel per l’economia 2023 è stato assegnato all’economista statunitense Claudia Goldin. Ci rallegriamo che il lavoro di una donna abbia ottenuto un riconoscimento così prestigioso. Ed è quindi l’occasione giusta per tornare a parlare di differenza salariale, che è stato uno dei temi della ricerca di Goldin.
Si rinnova la necessità di capire le caratteristiche della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Si è capito che per raggiungere l’equità di genere non basta la crescita economica: è necessario cambiare il modo di lavorare, in particolare per un Paese come l’Italia, dove i divari di genere restano altissimi, soprattutto nel mondo del lavoro. Non c’è dubbio, infatti, che una delle principali cause delle attuali profonde difficoltà, a partire dal cosiddetto inverno demografico, risieda proprio nel non aver saputo (o voluto) mantenere la promessa di parità di genere contenuta nell’articolo 3 della Costituzione.
Per le donne non è nuovo il dibattito sulle differenze salariali uomo-donna, e più in generale sulla parità di genere. Ricordate quel film inglese del 2010, We want sex? Un’opera cinematografica che proponeva un affresco piuttosto divertente dello sciopero che vide protagoniste le donne della Ford nel 1968. Un racconto in forma di commedia sociale che evita volutamente toni drammatici. Scritto e girato nel 2010, a crisi già iniziata, torna all’anno della mobilitazione nella fabbrica statunitense e diventa un film su uno sciopero che vince (come fu realmente). Le donne che scioperano ottennero il rispetto di sé e vinsero la loro battaglia per la parità salariale. Il titolo italiano era visibile sul manifesto e sui cartelloni pubblicitari: lo striscione “we want sexual equality”, che un colpo di vento maliziosamente piegò, ha trasformato la scritta in “we want sex”, colpo di vento e di energia irrefrenabile delle ragazze nella fabbrica Ford.
Riparliamo dunque del lavoro delle donne, e ogni ragionamento intorno a questo tema, rappresenta un topos classico che sembra esigere continue riattualizzazioni. Il punto è: qual è il rapporto che abbiamo con il lavorare? Con il nostro e con quello di tutti, dopo più di quindici anni di crisi e di neoliberismo, ideologia che, a quanto pare, non perde forza e anzi sembra diffondersi sempre più. In questi anni le analisi sul tema e intorno alle questioni derivate e specifiche continuano a essere numerose da parte dei femminismi italiani: un unico tema che periodicamente si ripropone per richiedere nuove e più affilate attenzioni da parte nostra.
Infatti la crisi perdura in Italia, le condizioni precarie si diffondono a velocità accelerata e senza limiti, coinvolgendo sempre più soggetti, e naturalmente in modi sempre nuovi le donne. La promessa di accesso alla piena cittadinanza attraverso il lavoro non è stata mantenuta, ormai è un dato acquisito. Del resto anche l’accesso al lavoro viene fatto pagare alle donne, anche in forme di ‘molestia’ (le molestie sui luoghi di lavoro, così difficili da narrare, così riluttante a formarsi uno spazio di ascolto davvero pubblico, che riconosca il significato violento di un ricatto nell’imporre questo prezzo all’accesso, di qualunque decurtazione del salario si tratti).
Il lavoro delle donne troppo spesso letto per semplice differenza rispetto all’omologo maschile, è invece carico di specificità. Alcune note, altre probabilmente ancora da scoprire, hanno mostrato l’esigenza di interrogare il lavoro femminile in modo diverso rispetto a quello degli uomini. Si tratta rendere più complesse alcune letture, interrogando la storia del lavoro; abbiamo mostrato quanto duttile e pervasivo potesse essere il concetto di femminilizzazione del lavoro, l’abbiamo usato per allargare gli sguardi verso spazi più larghi, più inclusivi di altri soggetti, anche quelli maschili.
In un’epoca di crescente e vincente neoliberismo resta, e anzi si consolida, un legame del tutto contemporaneo fra le donne e il lavoro. Si tratta di pensare la “questione del lavoro” come quella di “un’esperienza del lavoro, o meglio del lavorare”, della relazione con, di elaborarlo come parte di un processo di costruzione della soggettività. Il legame che diventa sempre più forte e consapevole negli anni è quello con il modo di osservare questo oggetto “donne e lavoro, lavoro delle donne”, utilizzando la qualità dell’elaborazione, della conoscenza nata nella passione che a cavallo del millennio aveva dato origine a gruppi, dibattiti, convegni, numerose pubblicazioni di vario tipo e conversazioni informali ma diffuse. Attenzioni che non sono diminuite negli anni, Contemporaneamente si è cercato di mantenere una costanza, che forse modifica i suoi focus, che spesso intreccia sguardi tra voci e osservatori in angoli diversi, ma in ogni caso resiste.
Il lavoro che cambia, è mutato a causa di una trasformazione feroce e brutale, intessuta di rischi, ormai già in atto, di perdita, di restringimento delle possibilità, di indebolimento delle condizioni materiali determinate dalla crisi e dalla crescente precarietà del lavoro.
Abbiamo descritto e analizzato a partire dal sapere accumulato su di noi e ne abbiamo fatto elemento di conoscenza per tutti, uomini e donne. Ma è un sapere rimasto invisibile al mainstream, rimaste ignorate le autrici. Sembra un paradossale parallelo con quanto accade quando descriviamo le condizioni del lavoro delle donne, quando suggeriamo nuovi concetti interpretativi di quelle condizioni, quando sollecitiamo trasformazioni a favore dei soggetti che lavorano: l’essere viste comincia dall’essere contate, magari trasgredendo quei criteri di misurazione e valutazione che vincolano le ricerche accademiche.
Ripetere l’elenco dei numeri che ci riguardano, dar corso a nuove tipologie di aggregazione, rendere visibile quello che i numeri che non diventano dati offuscano, illuminare le tante invisibilità. Un lavoro che tiene conto di quello di Linda Laura Sabbadini, che ha fatto della raccolta, della ricerca e diffusione, dell’interpretazione e restituzione dei dati di genere una leva di cambiamento dello stato di cose esistente.
Guardiamo al contesto in cui viviamo anche usando come bussola due parole-chiave e concetti elaborati dalle donne dell’emancipazione e dai femminismi successivamente; concetti-chiave per pensare il lavoro: discriminazione e desiderio. La prima indica l’emancipazione come ideologia e come esperienza, la seconda indica il femminismo delle origini e nel suo differenziarsi. Oggi, al tempo di una crisi economica che modifica il quadro dei mercati e dei lavori, la discriminazione non è fuori questione, anzi, ma ci chiediamo: qual è la chiave interpretativa che si sceglie? Quale termine sarà per noi dirimente? Consapevoli che la nostra presenza al lavoro non ha da confrontarsi in modo prioritario e unico con la figura maschile dell’operaio, vogliamo mostrare che il desiderio di lavoro delle donne c’è, si è reso più visibile negli ultimi anni, ha una qualità specifica. A cominciare dal fatto che il reddito di una donna non è più un salario aggiuntivo, anzi diventa unico o prevalente.
È desiderio di fare bene ciò che si sta facendo, di lavorare bene, nelle condizioni migliori per sé e per il prodotto finale, è desiderio di lavorare con piacere, di potersi identificare nel proprio lavoro senza dimenticare la vita: le donne conoscono il valore di identificazione che viene dal lavoro, sapendo che non è l’unico valore. Sentirsi lavoratrici come una parte dell’identità femminile, soprattutto non unica, solitaria e monolitica, soprattutto non lavoratrice secondo un unico modello, un unico contenuto professionale. Accanto a questo ‘sentirsi’ si affianca il ‘sentirsi donna, il sentirsi figlia, madre, amica, magari impegnata nelle reti di cittadinanza territoriale, forse affascinata da una vita e carriera sindacale… Non ci mancano come donne le identità da vivere. Quello che è sempre più difficile e desiderato è come integrarle, viverle tutte, farne un patchwork ove una non sia a escludere lo spazio dell’altra.
E allora cominciamo, per esempio, anche a ripensare il lavoro di cura – un paradigma pensato dalle donne – non più limitato all’assistenza relazionale, domestica, familiare o di aiuto, ma come un modo di fare e trasformare, come cura del processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, del sistema, dei contesti, cura dell’attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive.
La pandemia di coronavirus aveva suggerito che questo potesse diventare un nuovo paradigma per tutti. Ma poi non è successo.
Oggi risulta ancora più urgente capire come le analisi compiute, così intessute di passione conoscitiva e politica, possano suscitare e agire pratiche di trasformazione delle nostre condizioni.
Diventa sempre più necessario individuare e percorrere strade di cambiamento, sapendo che viviamo il bisogno e il desiderio di riconoscerci l’un l’altra come lavoratrici, e di costruire insieme un orizzonte pubblico che non cancelli chi lavora, anche se questo odierno è un “noi” sparso e frammentato. Possiamo esigere un cambiamento delle condizioni di lavoro, possiamo ritrovare e reinventare modi di alleanze e trattative, vogliamo “portare a casa” delle condizioni di lavoro e di vita che siano favorevoli per noi e le generazioni a venire. La domanda di oggi è: “come fare e alleate con chi?”. Elaborando comunque strategie utili a esprimere l’esigenza di futuro.
Adriana Nannicini, psicologa e autrice (anche presidente Anpi Pisa)
Pubblicato lunedì 20 Novembre 2023
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