Quel confine orientale segnato dalle cicatrici del secolo breve non te lo lasci dietro all’orizzonte quando arrivi a Palmanova e vi entri da Porta Aquileia. Come tutto il territorio udinese è un luogo splendido. È patrimonio dell’umanità, la Città Stellata, nome magico evocato dalla pianta poligonale a stella con nove punte, protetta da ben tre cinte di mura concentriche fortificate, l’ultima voluta dal generale Napoleone Bonaparte, che arrivò acclamato in Piazza Grande e rimase folgorato da un borgo dove ogni angolo era una macchina da guerra.
Te la senti addosso la storia a Palmanova con i suoi oltre 400 anni di vita, fondata dalla Serenissima Repubblica di Venezia per farne una roccaforte inespugnabile. Agli eserciti nemici. E capisci perché respiri Europa e perché quel confine è invece tanto ondivago nelle stagioni umane mentre qualcuno te lo riassume cosi: “Il mio bisnonno era suddito dell’Impero asburgico, il nonno del Regno Sabaudo, mio padre era cittadino tedesco, del Terzo Reich purtroppo, per meglio dire, e io della Repubblica Italiana, eppure siamo nati tutti nella stessa casa”.
I fatti che tracciano la vera frontiera, il limite che non ammette sfumature tra il Bene e il Male, ha dimorato a Palmanova tra l’autunno 1944 e la fine di aprile 1945. Riassunto nella Caserma Piave, trasformata negli ultimi otto mesi del secondo conflitto mondiale nel principale dei cinque centri di repressione antipartigiana istituiti dai nazisti per debellare le attività della Resistenza nella Bassa Friulana.
Il territorio della Città stellata apparteneva all’Operationszone Adriatisches Küstenland, la Zona di operazioni Litorale Adriatico, posta dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 sotto diretta amministrazione del Reich insieme a tutta la provincia di Udine e a quelle di Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. Formalmente sottratte al controllo della Rsi, che tuttavia restò complice attiva e protagonista di ogni efferatezza. Nomi italiani avevano i burattinai del macabro teatro nella Caserma Piave di Palmanova: Odorico Borsatti ed Ernesto Ruggiero.
Varcando il portone di ingresso, l’emozione è la stessa che provi a via Tasso, forse maggiore perché in quelle celle rimaste uguali da allora, nelle gabbie dagli spessi muri secenteschi, illuminate da finestrelle con grate di ferro, si è compiuta una strage. Perché una strage è l’uccisione violenta di parecchie persone insieme, in un luogo più o meno circoscritto, e in un tempo più o meno breve. Tante persone. Come alle Fosse Ardeatine, 335, tutti uomini, uccisi in 23 ore, o le 560 – donne, bambini, anziani – sterminate in mezza giornata a Sant’Anna di Stazzema. E sette giorni sono serviti a Monte Sole per recidere la vita ai 775 di Marzabotto. Nella Caserma per assassinare ci misero 240 giorni, ma scientificamente utilizzati per seviziare, prima di ammazzare. Come a via Tasso e nel carcere di Regina Coeli prima delle Cave ardeatine.
Alla Piave la conta dei morti accertati arriva a 465, uomini e donne, ma il computo esatto delle vittime non si è mai saputo: tracce cancellate, distrutti i documenti. La Caserma era deserta quando il 27 aprile 1945 vi entrarono i liberatori; i corpi, gli ultimi, li ritrovarono intorno seguendo il fetore esalato dai pozzi neri.
La storia che racconta ogni parete della Caserma degli orrori parla all’Italia intera. E all’Europa, voci che si levano da quella terra di confine, luogo pluricentenario di scambio di culture, di esperienze. E fratellanza.
Prima. Poi fascismo, nazionalismo, squadrismo, dittatura, colonialismo, Tribunale speciale, ignobili leggi razziali, guerre d’aggressione, nei vicini Comuni di Visco e di Gonars i campi di prigionia fascisti per civili rastrellati, attivi dal fin dal 1941. Donne- bambini-anziani sloveni, croati, bosniaci, herzegovini, montenegrini. E ancora Auschwitz, Mauthausen, la Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico lager di sterminio in Italia. Finalizzato all’eliminazione di partigiani, oppositori politici, civili catturati nel Litorale adriatico e di transito per ebrei della regione destinati ad altri campi di annientamento. Una gigantesca zona d’ombra.
Ma in quella terra friulana, partigiani e antifascisti, avevano capito che con la forza e la violenza si può vincere ma non convincere. E la lotta di Liberazione vinse perché si è convinto. Perché senza il sostegno della popolazione civile non avrebbe potuto esserci Resistenza armata. Resistenza armata e Resistenza civile insieme. Militari, sacerdoti, donne, uomini, giovani e giovanissimi, diverse tradizioni politiche e fedi differenti, capaci di unirsi nonostante le difficoltà e i momenti terribili di crisi.
Lo testimonia la storia dell’Intendenza Montes, la formidabile rete della Bassa Friulana che assicurò armi e cibo e risorse alle formazioni di montagna, alle Brigate Garibaldi, e pure all’intero IX Korpus sloveno, che aveva il nome di battaglia del suo ideatore, il partigiano Silvio Marcuzzi, MdOVM, torturato fino alla morte in una cella della Piave; lo documenta la generosità delle famiglie contadine che, assicurando il grano, sostennero la popolazione della Zona libera della Carnia e dell’Alto Friuli, una Repubblica anticipatrice della futura Italia. Lo comprova la vicenda dell’Intendenza della Osoppo, che si trasformerà in Brigata.
Più forte la Resistenza, più spietata la strategia dell’orrore e del terrore per annientare la lotta di quegli uomini e di quelle donne. Questo gridano le celle della Piave, con le scritte incise sui muri, nomi, frasi, speranze, i ganci dove i prigionieri venivano appesi per martoriarli.
Il dopoguerra non rese affatto giustizia alle vittime. Il processo contro alcuni dei componenti della “Banda Ruggiero”, venne celebrato dalla Corte Straordinaria d’Assise di Udine nel settembre 1946. Le sedute delle udienze si svolsero in un clima molto teso, complice il comportamento degli imputati, che intonarono canti fascisti e si esibirono nel saluto romano. Il giudice fu costretto a continuare le udienze a porte chiuse. Già una manciata di anni dopo il capo banda tornerà libero. Andò altrimenti a Borsatti, 22 anni e già comandante di una delle SS Cacciatori del Carso, prima di essere carnefice alla Piave. Arrestato, processato e condannato a morte nel maggio 1945.
Il professor Paolo Ferrari nell’introduzione al libro di Irene Bolzon “Repressione antipartigiana in Friuli” che con “La Caserma Piave di Palmanova” dello storico Flavio Fabbroni ha riportato alla luce e documentato quanto accadde, scrive: “Le guerre non finiscono quando lo decidono gli stati maggiori degli eserciti”, soprattutto una guerra che aveva investito così tragicamente la popolazione.
Due vicende che richiamano alla mente il processo per le Fosse Ardeatine celebrato nel 1944, dove era imputato l’ex questore di Roma Pietro Caruso, poi condannato a morte, e il linciaggio dell’ex direttore del carcere di Regina Coeli, Donato Carretta. Esistono anche le immagini di quel processo, girate da Luchino Visconti per il film Giorni di Gloria, prodotto dall’Anpi, le sequenze del linciaggio e della fucilazione. Per altri corresponsabili arrivò la clemenza, il voler dimenticare per ricominciare, per andare avanti, per ricostruire, o per le ragion di Stato del tempo sigillate per decenni negli armadi della vergogna. La storia deve raccontare, ha il dovere di raccontare cosa accadde. La storia, che va raccontata per intero e bene, difesa e non stravolta e nemmeno querelata o censurata.
E c’è la Memoria. Oggi noi abbiamo il dovere di fare Memoria. Il Novecento, il secolo breve dell’abominio, ancora così incombente, ha anche scoperto che la Memoria è uno straordinario antidoto all’indifferenza, al ritenere che ciò che accadde e accade all’altro non ci riguardi. Invece tocca ciascuno di noi, ieri e oggi.
W la pace, abbasso la guerra qualcuno-qualcuna, probabilmente giovanissimo o giovanissima, ha inciso in una di quelle celle. La scelta, contro l’indifferenza e l’amnesia, il riscatto contro l’oppressione. Ed entrando in quelle celle ti viene da gridare forte Antifascismo.
Che fare dunque? Usare la Memoria, pronunciandola alta e forte, contro il silenzio. Lo ripetevano i sopravvissuti alla Shoah, e quasi ossessivamente le nostre partigiane e i nostri partigiani, lo fanno ancora quanti anzianissimi sono tra noi. Ma che significa fare memoria, che memoria possiamo fare domani, quando i protagonisti di allora non ci saranno più, noi che non siamo testimoni con le nostre carni?
A Palmanova, città incantevole e Luogo di Memoria, si sta provando a dare una risposta e a rendere inespugnabile all’oblio la memoria democratica. C’è un innovativo e bellissimo progetto per realizzare nella Piave il Museo regionale della Resistenza del Friuli-Venezia Giulia, ed è incredibile rendersi conto di come a distanza di otto decenni si possa ancora scoprire una parte di storia italiana ed europea che dovrebbe essere patrimonio di tutti.
I fruitori, si pensa soprattutto agli studenti ormai in gran parte “nativi digitali”, potranno svolgere attività laboratoriali, e avranno a disposizione strumenti insostituibili di ampliamento della conoscenza, capaci di attivare un coinvolgimento personale intimo ed emotivo grazie a realtà virtuale e aumentata, intelligenza artificiale, gamification, edutainment.
Ed ecco la proposta, unita ad un auspicio rivolto a tutte le istituzioni comunali e regionali e nazionali, pronunciati ad alta voce durante le celebrazioni ufficiali, istituzionali, della Liberazione della Caserma Piave, da direttrice di Patria e componente del Comitato nazionale Anpi: gli studenti e gli insegnanti di tutta Italia realizzino Viaggi della Memoria alla Caserma Piave per poi recarsi alla Risiera di San Sabba. Lì 3.000, forse 5.000, i morti – e i vivi, tra cui la partigiana MdOVM Virginia Tonelli – passati per il crematorio e il camino della ex fabbrica, entrambi distrutti dagli occupanti in fuga come le baracche di Auschwitz per cancellare più prove possibile delle nefandezze praticate.
Dalla Caserma Piave di Palmanova a Trieste, passando per la memoria dei recinti di Gonars e della Caserma Sbaiz a Visco. Una cinquantina di km appena per scoprire quanto abbiamo vissuto accanto all’ignominia e ci siamo sprofondati. Per poi riscattarci grazie alla Resistenza e alla forza dell’unità antifascista. Consapevoli o no, ne viviamo la Storia e la Memoria, perché sono scolpite sui muri di quelle celle, come sui cancelli di Auschwitz o sui gradoni della scala di Mauthausen. Anche oggi dunque siamo chiamati a scegliere.
L’Amministrazione comunale di Palmanova, con il sindaco Giuseppe Tellini e l’assessora alla Cultura Silvia Savi, ha appoggiato “la proposta di inserire l’ex caserma nei viaggi nazionali della memoria affinché si restituisca dignità a un luogo che ha segnato la storia delle nostre terre”.
Il prossimo anno, il 2025, si festeggerà l’80° della Liberazione italiana e sarà anche l’anno in cui Nova Gorica, in Slovenia, e la vicina Gorizia, saranno insieme Capitale europea della cultura.
Ecco, l’augurio è che presto quella larga zona d’ombra venga illuminata anche con Viaggi della Memoria da Palmanova a Trieste per una continua, ininterrotta, perenne Memoria nazionale con le donne e gli uomini e soprattutto i ragazzi di oggi e di domani.
Pubblicato mercoledì 29 Maggio 2024
Stampato il 04/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/la-caserma-piave-di-palmanova-la-resistenza-di-confine-e-lindicibile-a-perenne-memoria/