“Italiani morire”: così gridavano i soldati tedeschi mentre mettevano in fila sei carabinieri e un civile. Poi li fucilarono con i mitragliatori, e poi passò il comandante con la pistola per dare il colpo di grazia alla testa.
Questo accadde nella notte fra il 14 e il 15 agosto 1943 a Orto Liuzzo, un piccolo villaggio sulla costa tirrenica del territorio comunale di Messina. Dei sei carabinieri uno miracolosamente si salvò, diventando così testimone dell’eccidio e portandosi dentro per il resto della sua vita quel dramma di mezz’agosto.
Comunemente si pensa che la Resistenza e la costruzione di una nuova Italia siano iniziate dopo l’8 settembre ’43, e che la Sicilia non c’entri niente. Invece tutto cominciò in Sicilia fra il luglio e l’agosto di quel maledetto anno: cominciarono la caduta del fascismo, la “guerra in casa”, i pesanti bombardamenti, la prima “marocchinata”, l’ostilità della gente comune al regime e ai nazisti, le prime forme di disobbedienza e di resistenza. Persino le “camicie nere” che avrebbero dovuto difendere il “duce” e il “sacro suolo della Patria” al primo contatto con gli Alleati si dileguarono.
Restavano i carabinieri, con il loro giuramento e il loro senso del dovere. Quei sei carabinieri fucilati, insieme al civile, a Orto Liuzzo, peraltro, erano tutti siciliani, anzi meglio, tutti della provincia di Messina. Erano di guardia, in quei giorni di ritirata degli italo-tedeschi in direzione dello Stretto, alle infrastrutture, soprattutto ai ponti.
Nel ripiegamento da Palermo, lungo la strada statale 113, la Wermacht minava appunto i ponti per farli saltare, faceva crollare costoni di roccia e terra sulla carreggiata, ostruiva le gallerie della sede stradale.
Al ponte Tarantonio, la stazione dei carabinieri di Castanea, altro villaggio del Comune messinese, aveva stabilito un posto di guardia; a presidiarlo vennero mandati l’appuntato Antonino Rizzo (42 anni, di Scaletta Zanclea), il carabiniere richiamato Tindaro Ricco (43 anni, di Gioiosa Marea), il carabiniere ausiliario Antonino Caccetta (42 anni, di Sinagra), i carabinieri aggiunti Nicolò (o Nicola) Pino (33 anni, di Barcellona Pozzo di Gotto), Antonino Da Campo (29 anni, di Novara di Sicilia) e Santo Graziano (40 anni, di Librizzi). Sarà quest’ultimo, il sopravvissuto, a riferire il 15 gennaio 1944 al comandante della Stazione CC Reali di Castanea, Francesco Tranchina, quanto era accaduto a Orto Liuzzo nell’estate precedente.
Tranchina verbalizza con oggetto: “Raccolta di documentazione atti di barbarie tedesche”. E in effetti proprio di barbarie si trattò. Nella contrada Chiusa del villaggio i soldati tedeschi avevano preso di mira una villa privata, per saccheggiarla; a difenderla c’era Stefano Giacobbe, un quarantenne del vicino paese di Divieto-Villafranca Tirrena, parente del proprietario dell’edificio, Matteo D’Agostino. A questo punto compaiono i sei carabinieri, in abiti borghesi per disposizione del Comando, i quali tentano di prendere le difese di Stefano Giacobbe. Ma vengono sopraffatti dalla pattuglia della Wermacht, armata di fucili mitragliatori. Secondo quanto riferirà Santo Graziano, dopo essere stati fermati, i sei militi dell’Arma vengono condotti presso il comando tedesco sito nella vicina casa della signora Flora Grazioli. Perquisiti, vengono riconosciuti per carabinieri e in più addosso all’appuntato Antonino Rizzo viene trovata la pistola d’ordinanza. La pistola «gli fu tolta subito dai predetti tedeschi dicendoci: “Italiani morire”».
“Subito dopo – è sempre Graziano a verbalizzare – furono condotti a circa 50 metri verso l’interno di un appezzamento di terreno incolto ed ivi venivano fucilati”. Insieme ai carabinieri viene fucilato anche il civile Stefano Giacobbe. “Il carabiniere aggiunto Graziani [sic] Santi [sic] prima di essere raggiunto dal proiettile del fucile si buttò per terra e rimase illeso fingendosi morto. I tedeschi per assicurarsi che fossero tutti morti controllarono il cuore ed alla fine decisero sparare un colpo di rivoltella alla testa di ciascun militare, ma il Graziani [sic] che aveva trattenuto il respiro… sfuggì anche al colpo di pistola… il proiettile gli sfiorò i capelli”.
“Dopo qualche quindici minuti – riferisce Graziano in un nuovo verbale del 1946 – essendo la notte rischiarata dal chiarore lunare, ripresi i sensi e per timore che i militari tedeschi tornassero mi sono allontanato rastrellandomi per terra, temendo di essere visto, finché riuscii ad allontanarmi”. Con i tedeschi ancora in zona – l’evacuazione della Sicilia attraverso lo Stretto di Messina si concluderà il 17 agosto – a far perdere le tracce del sopravvissuto all’eccidio concorsero alcuni abitanti del luogo.
“I tedeschi trasportarono poscia” le salme in un vicino vigneto. “Messe una su l’altra, venivano ricoperte con poca terra e poscia abbandonate”, secondo quanto si legge nelle relazioni dei CC di Castanea.
I militari germanici autori dell’eccidio quasi certamente appartenevano alla 29ª divisione granatieri corazzati “Panzer Grenadier”. Il generale Hube, comandante in capo delle truppe tedesche in Sicilia, aveva disposto l’ultima linea di resistenza da Ponte Gallo sul versante tirrenico della cuspide nordorientale siciliana a Galati sul versante jonico. La 29ª divisione doveva tenere il capo estremo della linea sul Tirreno e sulla strada statale 113, appunto fra Ponte Gallo e Orto Liuzzo.
Volendo, si sarebbe potuto risalire ai nomi dei componenti della pattuglia tedesca – forse sette – in servizio quella notte fra il 14 e il 15 agosto 1943; si sarebbero potuti assicurare alla giustizia i criminali che non esitarono a uccidere sei persone inermi e disarmate. Ma nessuno volle farlo; nessuno indagò veramente su quell’eccidio. Anzi, in verità, questo e altri episodi che videro tedeschi, nazisti e fascisti protagonisti di vari crimini finirono nascosti in un armadio blindato della Procura generale militare di Roma. Solo nel 1994 le indagini seguite al caso Priebke fecero aprire quello che è passato alla storia come “l’armadio della vergogna”. Vennero trovati ben 695 fascicoli di misfatti, sui quali non si è potuto fare giustizia.
Due anni dopo la Procura generale militare inviò alla Procura militare di Palermo il fascicolo della strage di Contrada Chiusa, ma essendo morta ormai la maggioranza dei testimoni – compreso Santo Graziano, deceduto nel 1988 – il 24 luglio 2006 il caso venne archiviato. In quegli stessi anni operava la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti; ma anche questa non riuscì a far procedere la giustizia, limitandosi a un giudizio storico-politico a monito per le future generazioni.
Non poteva essere archiviato il dolore però dei familiari delle vittime. Stefania Giacobbe nacque tre mesi dopo l’uccisione del suo papà Stefano; non l’ha mai conosciuto quindi, ma il ricordo è forte: “A lui gli volevano tutti bene…”. L’ha visto solo in foto, quella che tiene del tinello della sua casa di Divieto-Villafranca Tirrena, e racconta a quelli dell’Anpi di Messina che sono andati a trovarla, che in famiglia erano disperati perché non conoscevano il posto dove Stefano era stato trucidato e ricoperto d’un po’ di terra dai tedeschi. Poi una notte il fratello lo sognò e Stefano gli indicò il punto esatto dove avrebbe potuto ritrovare il suo corpo. Stefana, donna solida e sveglia, ha lavorato per anni come operaia alla Pirelli di Villafranca Tirrena e ancora oggi va in campagna e raccoglie le ciliegie amarena.
Altra donna solida e sveglia è la figlia del carabiniere Nicolò Pino, Sebastiana, detta Iana. Continua ad abitare a Barcellona; ha conservato tutto quello che fu ritrovato nelle tasche del suo papà e un solo ricordo vivido: quando lei aveva cinque-sei anni, Nicolò, che tutti chiamavano Cola, si divertiva a giocare con la sua bambina, facendole fare il “volo” e solleticandola col naso sul pancino. La famiglia di Pino andò a Orto Liuzzo e ritrovò il luogo dell’eccidio; adesso Nicolò Pino riposa al cimitero di Barcellona, accanto alla moglie. Quella tomba costò tanto da dover fare debiti; la vedova li saldò con il suo lavoro di ricamatrice. La figlia Iana ha conservato il conto di quei debiti, saldati, anche con un piccolo contrabbando di tabacco; e Iana ne sorride…
Questa storia di ottant’anni fa è stata recuperata dall’Anpi di Messina, sottratta ai silenzi istituzionali, che in tutti questi anni non hanno fatto i conti però con la memoria degli abitanti di Orto Liuzzo.
Una lapide adesso la ricorderà sul sagrato della piccola chiesa Madonna di Montalto, anche grazie alla collaborazione del parroco Franco Arrigo e di tutti quelli che hanno voluto dare il proprio contributo all’iniziativa della stessa Anpi messinese.
Giuseppe Restifo
Pubblicato giovedì 10 Agosto 2023
Stampato il 21/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/italiani-morire-leccidio-di-orto-liuzzo-di-messina/