La politica e l’azione nascono sul solco della teoria, dell’analisi che scocca la freccia dall’arco del tempo. Oggi la freccia sembra muoversi in uno spazio cianotico in cui l’avvenire non viene più prefigurato e programmato, in cui i tatticismi estemporanei sembrano aver avuto il sopravvento sullo studio sistematico. Ed in questo marasma in cui Dio è morto e con lui anche Marx, dove sono gli intellettuali? Nelle torri d’avorio lontane dall’agorà politica, dalla cosa pubblica sempre più privata che le dinamiche neoliberiste hanno inequivocabilmente definito. Oggi, nel generale tramonto della politica, abbiamo bisogno di una nuova alba, una chiamata alle armi che grida con la forza di un partigiano: “libertà è partecipazione”, cantava Gaber, gli intellettuali con il loro disincanto devono ricordare questo ritornello come un memento mori.

La politica italiana sorge, con la Prima Repubblica, nel calderone delle lotte di liberazione, nel grembo dello Stato antifascista, intriso di cultura: l’intellettuale partigiano è la linfa vitale che permette la nascita della Repubblica. Lo Stato, come lo conosciamo noi, è il prodotto di una “cultura politica” che oggi appare come un nebuloso ricordo nella griglia del tempo. Il tramonto della politica coincide col culminare del graduale processo di sparizione dell’intellighenzia dalla politica. Non è un caso che i due fenomeni camminino di pari passo imponendo un’analisi di scienza e di coscienza per vedere dove, nella macchina della Storia, qualcosa si è rotto ed il filo che teneva insieme gli eventi si è spezzato davanti ai nostri occhi, lasciandoci di fronte ad “un’eredità non preceduta da alcun testamento” [1].

Luciano Canfora (da https://www.gazzettadaltacco.it/2017/11/20/bari-ancora-un-incontro-con-lectio-magistralis-di-luciano-canfora/)

Bisognerebbe, forse, prima di approfondire il discorso sul rapporto tra politica ed intellighenzia, riflettere sullo sfondo che ha visto questa strettissima relazione e che, mutatis mutandis, l’ha radicalmente ridefinita: si tratta chiaramente della democrazia, della sua drastica trasformazione che richiede un’analisi più dettagliata definendo, infatti, il mutare del rapporto fin ora evidenziato. Non è possibile ignorare, come del resto ha sottolineato Luciano Canfora [2], i profondi mutamenti che hanno caratterizzato la democrazia nell’ultimo quindicennio in relazione alla definizione dell’ordine sovranazionale europeo. Vale la pena riprendere per un attimo le riflessioni del filosofo per cercare di fare un po’ di luce sulle tenebre che ricoprono tale metamorfosi. Una forma di potere sovranazionale che definisce, direttamente e/o indirettamente, gran parte delle manovre politiche nazionali, determina inevitabilmente una riduzione del potere interno agli Stati (questo senza tenere conto della polarizzazione del potere tra Stati membri che non può che ulteriormente acuire gli effetti appena mostrati di restringimento del margine di autonomia decisionale). Altro elemento da considerare è la composizione di questo centro di potere sovranazionale: organismi bancari, burocratici, in una parola, tecnici. Non solo i nostri parlamenti sono stati ridotti a “delle larve, non hanno quasi nessun potere”, ma si sono anche tecnicizzati sul modello europeo. Il motivo per cui il discorso intorno all’evoluzione del modello democratico risulta essere uno snodo imprescindibile per affrontare il rapporto tra politica ed intellettuali, è che solo nella forma democratica in cui letteralmente il potere appartiene al demos, la relazione politica-intellighenzia può avere luogo: dove il potere risiede nel popolo o nei suoi rappresentanti, lì nasce la teoria politica in forma dialogica; non a caso è nella democrazia ateniese che vediamo i natali tanto della sofistica quanto della “filosofia politica” [3]. Per tornare al caso italiano, l’intellettuale politico trova il suo topos nella Repubblica democratica antifascista, dove la struttura della teoria può adeguarsi agli spazi di libertà tanto del pensare quanto dell’agire. Ogni espressione politica della prima Repubblica vede alle sue spalle teorici di grande spessore leggere e orientare la realtà circostante. La vita stessa dell’intellettuale, citando la Arendt, è vita activa, praxis democratica di compromesso, ma basato sulla sostanzialità dei diritti fondamentali. Il Leviatan, che ha definito lo Stato moderno ed assolutistico, lascia il posto ad un campo aperto fatto di scambi ed interazioni: la democrazia. Ed è solo qui che l’intellettuale trova il posto che gli spetta come attore politico, non tecnico, ma filosofo.

Antonio Gramsci

Una volta definito il campo all’interno del quale bisogna leggere questo rapporto, è possibile seguire il filo della Storia, cercando di fare una genealogia del nesso che ha prima visto stringersi politica ed intellettuali indissolubilmente con la Prima Repubblica; poi, nella Seconda Repubblica, il nodo comincia ad allentarsi fino a sciogliersi definitivamente alle soglie della Terza Repubblica. Come già accennato, l’intellettuale militante è la linfa vitale della prima Repubblica: come pensare, ad esempio, al Pci senza richiamare immediatamente alla memoria i teorici che ne hanno dettato le linee interpretando o criticando la dottrina socialista sovietica? L’esempio non è casuale poiché, nonostante – come già visto en passant – dietro ogni formazione politica ci fosse uno o più intellettuali di riferimento, il discorso sull’egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquisti la società tramite la presa della cultura: la cultura, per il filosofo italiano, è organizzazione che agisce direttamente sulla formazione della coscienza di singoli e masse determinando inevitabili e fondamentali ricadute sul piano politico. È “quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza di deliberare in qualsiasi momento” [4] che non deve essere legata alle contingenze dell’attualità, ma “disinteressata”: “cioè senza aspettare lo stimolo dell’attualità”, ma che discuta di “tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario” [5]. Così, con gli Scritti Politici, già ad inizio secolo, abbiamo tracciate le linee che determinano il ruolo centrale dell’intellettuale, incarnato, come abbiamo visto, nel partito. Diversa e forse più accattivante sarà l’interpretazione che ne darà Togliatti quando, alla fine del conflitto mondiale, riprenderà i discorsi di Gramsci. Togliatti da una parte sottolinea la centralità del rapporto tra politica ed intellettuali, dall’altra contesta la visione dell’intellettuale collettivo incarnato dal partito, per difendere l’autonomia intellettuale. Il ruolo di Togliatti è assolutamente centrale in quest’analisi perché è proprio grazie a lui che il rapporto che stiamo analizzando trova il suo idillio. Nella sua penna possiamo leggere il desiderio di definire una specificità italiana (provata tanto dal suo voler curare e pubblicare i testi gramsciani, quanto dal favorire il fiorire di riviste – Società, Il Contemporaneo, Studi Storici, per citarne solo alcune –, case editrici – Editori Riuniti, nati nel 1953 – e istituzioni, come l’Istituto Gramsci). La stessa pubblicazione degli scritti di Gramsci rappresenta l’elemento centrale per ribadire con forza le radici italiane del partito, autonomo rispetto alle posizioni sovietiche.

Tornando a Gramsci, l’elemento centrale del suo lavoro che in un certo modo condiziona completamente il rapporto politica-intellettuale per tutta la Prima Repubblica, è la sua idea di Intellettuale Organico: non è possibile distinguere homo faber da homo sapiens, quindi, all’infuori della sua professione, ogni uomo svolge una qualche attività intellettuale portando avanti una concezione del mondo, una certa morale contribuendo così a sostenere o modificare il modo stesso di pensare. Con la proposta dell’intellettuale organico, Gramsci lancia l’idea di un’intellettualità diffusa, un nuovo tipo di intellettuale che appartiene profondamente alla sua classe sociale, alla propria classe di lavoro a cui resta ancorato dal compito di costruire attivamente la sua emancipazione.

Silvio Berlusconi (da http://www.improvearts.net/berlusconismo/)

Ma ora, per poter introdurre il discorso sulla Seconda Repubblica e cogliere il punto in cui il divario è diventato incolmabile, bisogna brevemente accennare ai motivi che hanno visto la Prima Repubblica tramontare. Benché siano molteplici [6], forse l’elemento più evidente per cogliere il riconfigurarsi di intellettualità e politica, è il berlusconismo [7]. Con questa espressione si può definire con una parola l’insieme di pratiche governative che hanno posto l’imprenditore-politico a capo dello Stato. Basta guardarne i tratti essenziali per mostrare come sia elemento fondamentale nel lento scolorirsi del legame tra intellettuali e politica. Alla radice del berlusconismo troviamo due elementi che determinano il mutamento nella pratica governativa: da una parte la figura dell’imprenditore che gestisce lo Stato nel segno della produttività, dando il primo segno della virata neoliberista che vediamo oggi completamente realizzata; altro elemento centrale è la spettacolarizzazione della politica, forse l’elemento davvero determinante nel processo di divaricazione tra intellettuali e politica, con la conseguente estinzione di una “cultura politica”. Da una parte, quindi, passiamo dallo Stato keynesiano ed imprenditore all’imprenditore-Stato, rovesciando i termini del rapporto; dall’altra l’agorà politica si sposta dai dibattiti intellettuali ai talk show televisivi. Non la teoria, ma il gossip determinano il centro dell’attenzione verso cui il cittadino-spettatore è spinto. All’intellettuale si sostituisce lentamente la figura dell’opinionista, mentre la cultura sventola bandiera bianca. È ovvio che il berlusconismo altro non è che l’effetto di una parabola discendente che ha visto il tramonto prima dell’ideologia e poi dei partiti. Infatti il successo di cui ha goduto il partito di Silvio Berlusconi non è da attribuirsi esclusivamente al suo carisma politico: ci troviamo di fonte al crollo fragoroso della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista Italiano a seguito dello scandalo di Tangentopoli e dell’inchiesta Mani Pulite. Con il crollo dei partiti, da una parte gli elettori si ritrovano orfani e possono cedere alle malie del creatore di sogni Silvio Berlusconi; dall’altra è la figura dell’intellettuale organico a soccombere, schiacciata dalle macerie di un’era politica ormai finita: non è più necessario un modello per leggere il mondo, una teleologia politica, un sistema di pensiero, la mediazione intellettuale dove l’ideologia neoliberista detiene le redini del pensiero. Sparita la figura dell’intellettuale organico, restano i tecnici e specialisti a farne le veci, senza l’aspirazione a voler dare una visione del mondo con cui orientare l’agire politico e, sicuramente, meno affascinanti.

Bruno Vespa

Il processo di imbarbarimento politico che abbiamo visto muovere i primi passi nel declino della Prima Repubblica, giunge a maturazione completa mentre le pratiche politiche piegano il collo verso il boia finanziario. In questo quadro è chiaro che l’analisi sulla degenerazione della forma democratica sia strettamente congiunta al declino del rapporto intellettuali-politica: dove il margine decisionale non è più contrattato nel libero spazio della democrazia, ma imposto dalle dinamiche economico-finanziarie nel segno della produttività senza frontiere, è chiaro che l’intellettuale non trova più una casa nella politica che abiura per poter mantenere intatta la sua integrità morale o, semplicemente, perché il campo si è spostato altrove.

Oggi sembra essersi chiusa non solo l’epoca dell’intellettuale-politico, ma della politica stessa, dell’ideologia che da sempre è stata l’ossatura stessa della politica e che oggi, alle soglie della Terza Repubblica, sembra essere un orpello superfluo se non addirittura un ostacolo alla fluidità dei tatticismi che il sistema economico-finanziario richiede. La Terza Repubblica si apre così come tramonto della politica, tramonto della cultura, crisi diffusa ed irreparabile. Ma sulla crisi della politica e della cultura, sentiamo il bisogno di una politica ed una cultura della crisi, che possano approfondire le contraddizioni interne al sistema per poterlo ribaltare. Non è questo il momento di lasciare lo scudo e fuggire come Archiloco di fronte alle ceneri della battaglia. Perché se oggi si vuole gettare uno sguardo sul presente senza volerlo rifuggire in lontane visioni oniriche di trascendente tranquillità, bisogna guardarla in faccia la crisi, approfondirla e capirla profondamente. Solo la cultura, anche della crisi, ma politica, può sperare di vedere la fenice risorgere dalle sue ceneri. E volare ancora, come la fenice, è possibile solo a partire dalle ceneri del nostro presente, attivamente anche e soprattutto laddove le possibilità di risorgere ancora sono bassissime. Nessuna cosa bella può nascere in modo semplice e spontaneo senza la lotta e la sofferenza nella lotta, senza le fiamme che straziano le carni prima di incenerirle del tutto. Prima di poter spiccare ancora il volo.

Andrea Pascale


[1] René Char (publié dans Feuillets d’Hypnos en 1946) [ «Notre héritage n’est précédé d’aucun testament»].

[2] Tratto da intervista a L. Canfora sul libro, sulla democrazia e sul ruolo degli intellettuali oggi da Radio Cora.

[3] Da notare, infatti, da una parte la prima opera ad interrogarsi sulla bella città e sul suo governo – La Repubblica di Platone – e,dall’altra e poco dopo, la prima definizione di politica – che trova i suoi natali nell’opera di Aristotele.

[4] A. Gramsci, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. I, pp. 140-143

[5] ibidem

[6] Si segnalano a tal proposito: lo scandalo di Tangentopoli e l’inchiesta Mani pulite con la conseguente scomparsa di DC e PSI, il berlusconismo – su cui ci concentreremo –, la sparizione dell’MSI e la nascita di AN, l’entrata in parlamento della Lega, la riforma della legge elettorale con l’introduzione del Mattarellum, l’assassinio di Falcone e Borsellino.

[7] Espressione con cui si intende la pratica governativa che caratterizzerà la Seconda Repubblica introducendo alle dinamiche neoliberiste di cui pare dovrà nutrirsi la Terza.