Dopo il tragico evento di Genova abbiamo assistito a un dilagare di ipotesi, dichiarazioni e prese di posizione tra le quali, anche prescindendo da quelle dettate da ignoranza e cinismo propagandistico, è difficile districarsi per cercare di capire la reale portata delle questioni in gioco. Provo allora a riflettere sui due punti che a me sembrano meritevoli di particolare attenzione.
Il crollo e le cause
Quale sia la causa o, più probabilmente, le cause del crollo è questione ancora aperta che avrà una risposta plausibile solo dopo la conclusione delle varie perizie in corso. Ad oggi le cose che possiamo ragionevolmente dire sono due.
La prima riguarda la struttura stessa del Ponte sul Polcevera, progettata e costruita oltre cinquanta anni fa con criteri del tutto innovativi da Riccardo Morandi, che era e resta uno dei più illustri progettisti di ponti in Italia e nel mondo. Fu lo stesso Morandi a far presente più volte nel corso degli anni che quella struttura, proprio per essere un’assoluta novità dal punto di vista tecnologico e costruttivo, avrebbe potuto presentare in alcune parti (gli ormai famosi “stralli”) problemi che bisognava seguire attentamente. Infatti il cedimento di uno degli stralli è una delle possibili cause del crollo e un intervento possibile avrebbe potuto essere il loro rinforzo, come è stato fatto su altre pile del ponte e come sembra fosse in programma di fare anche su quella crollata.
La seconda considerazione è che il traffico per il quale il ponte era stato allora pensato è aumentato a dismisura negli anni successivi, fino agli attuali altissimi livelli. È noto, infatti, che l’autostrada che attraversa il Polcevera costituisce l’unico percorso di collegamento tra Genova e gran parte del Paese nonché la Francia, e che il flusso principale deriva dai grandi mezzi che trasportano merci da e per il porto. Ciò comporta quantità e frequenze di passaggi impensabili all’epoca della realizzazione, il che rende plausibile l’ipotesi che nel tempo la struttura del ponte si sia via via “affaticata”. Infatti il cedimento di una parte dell’impalcato è un’altra delle possibili cause del crollo e in questo caso un intervento avrebbe potuto essere il contingentamento del traffico: limitazione di peso, transito limitato ad alcune ore, passaggi per gruppi distanziati e via dicendo.
In entrambi i casi l’unico modo per prevedere quei cedimenti (e, quindi intervenire) non può che essere un continuo controllo dell’opera nelle sue diverse parti effettuato con metodi e strumenti adatti alla situazione. Che la mancanza di questi controlli (o la loro efficacia) sia da attribuire al concessionario – la Società Autostrade – o al concedente – il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti – è questione che dovrà dirimere l’Autorità giudiziaria. Resta il fatto altamente probabile che quei controlli non siano stati fatti in maniera adeguata alla complessità dei problemi presenti e, quindi, non abbiano consentito di intervenire per prevenire il collasso.
Un territorio fragile
Ha detto giustamente Renzo Piano che bisogna partire dall’evento del crollo del Ponte sul Polcevera per rigenerare Genova, città che ne ha certamente estremo bisogno essendo cresciuta negli ultimi decenni in modo abnorme sulla spinta di una irresponsabile speculazione immobiliare. Ma ritengo che sarebbe assai limitativo limitarsi ad un discorso riguardante Genova perché quell’evento ha avuto un carattere disvelatorio, di testimonianza diretta e inconfutabile del malgoverno che ha caratterizzato il territorio del nostro Paese da molti decenni a questa parte, le cui conseguenze appaio ripetutamente e ovunque.
Il territorio del Bel Paese – che è tale per la presenza di un continuum natura-arte-cultura che non ha eguali nel mondo – è terribilmente fragile. Lo è per costituzione – geomorfologica, idrologica, sismica, vulcanica – e lo è perché un lungo sonno della ragione che ha obnubilato la mente di chi ha governato il territorio almeno da cinquanta anni a questa parte, ha lasciato spazio a che prevalessero le logiche della speculazione edilizia, della rendita fondiaria e degli interessi professionali, dando luogo ad una edificazione abnorme dal punto di vista quantitativo, priva di qualità architettonica e al di fuori (o contro) ogni ragionevole disegno urbanistico.
Da questo punto di vista sono molte le situazioni di fragilità del territorio di cui si dovrebbe parlare, due su tutte.
Si dovrebbe parlare del dissesto idrogeologico per dire che negli ultimi decenni l’effetto congiunto della sistematica alterazione dei corsi d’acqua, della spoliazione dei versanti boschivi, dell’abbandono dei presidi agricoli e dell’urbanizzazione selvaggia, ha causato continuamente eventi disastrosi. Solo negli ultimi venti anni se ne sono verificati 35 – frane, esondazioni, straripamenti, rottura di argini, dilavamento di versanti – che hanno causato 359 vittime e danni stimati in miliardi di euro. Dai resoconti e dalle indagini relativi a quegli episodi si rileva costantemente che le cause sono da attribuirsi in larga misura al malgoverno del territorio: edificazione dissennata, intubamento dei torrenti, scarsa manutenzione, mancanza di controlli.
L’episodio più tragico – quello di Sarno del 1998 con 59 vittime – è stato sì causato da un enorme fronte di frana del monte Pizzo Salvano, ma basta guardare una delle tante immagini che hanno illustrato quell’episodio per vedere che buona parte del centro urbano era stato edificato su un versante scosceso di quel monte che, anche per questo, era stato ampiamente disboscato.
Poi si dovrebbe parlare dei terremoti, anche in questo caso guardando agli ultimi cinquanta anni durante i quali la gran parte delle vittime e dei danni sono da attribuirsi non agli eventi sismici in sé – certamente causa primaria – ma al fatto che l’urbanizzazione e l’edificazione è avvenuta in spregio alle norme di legge e alle regole del buon costruire. Vale a dire che si è costruito dove non si sarebbe dovuto costruire – spesso legalmente in virtù delle incredibili scelte di piani regolatori regolarmente approvati – e lo si è fatto senza seguire le norme e le prescrizioni tecniche per le zone sismiche. Dal 1970 ad oggi vi sono stati 54 eventi sismici che hanno causato complessivamente 4.214 vittime e danni che si contano in miliardi.
È bene aver presente che nel caso dei terremoti bisogna partire da due presupposti: che l’intero territorio del nostro Paese, pur a diversi livelli, è esposto al rischio sismico; che per sua natura il terremoto non è prevedibile ai fini della sicurezza delle persone e delle cose (chi si ingegna sul questo terreno perde del tempo inutilmente).
Ciò significa che l’unica strada utile è quella della prevenzione, che può essere percorsa a due condizioni: con regole urbanistiche che escludano l’urbanizzazione in zone a elevata pericolosità e con regole edificatorie (e controlli) sulle modalità costruttive e le tecniche realizzative. I più recenti disastri de L’Aquila (2009, 309 vittime) e di Amatrice (2016, 299 vittime) dimostrano che ancora oggi siamo ben lontani dall’acquisire questa consapevolezza e dal metterne in pratica le implicazioni.
Alessandro Bianchi, professore ordinario di urbanistica, Rettore dell’Università Telematica Pegaso, già Ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi
Pubblicato venerdì 7 Settembre 2018
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