«Il coinvolgimento degli Stati Uniti in Cile nel decennio 1963-1973 è stato continuo e massiccio». La relazione finale Covert action in Chile (nota come Church Report) presentata dalla commissione d’inchiesta del Senato statunitense nel 1975 è inconfutabile. Nel lasso di tempo che separa l’elezione popolare (4 settembre) dall’investitura solenne del Congresso (24 ottobre) di Salvador Allende, viene progettato dal Dipartimento di Stato e dalla Cia il cosiddetto “Piano Fubelt”, ovvero due tentativi sovversivi per evitare che il leader della Unidad Popular venga costituzionalmente eletto e si insedi presidente della Repubblica del Cile.
«Sta emergendo il ruolo sporco della nostra politica in Cile. Il materiale declassificato permetterà di porre in una luce più chiara i delitti ordinati da Pinochet e le implicazioni del governo nordamericano nell’appoggio dato alla dittatura. I documenti sono in totale circa sedicimila e si riferiscono alle azioni svolte dall’amministrazione Nixon per abbattere Allende e sostenere Pinochet. Adesso conosciamo il tipo di aiuti che la Cia diede alla Dina, la polizia segreta del regime militare: addestramento, materiale tecnico e collaborazione diretta in occasione di alcune operazioni». È il 30 giugno 1999 e Peter Kornbluh, responsabile del National security archive per il “Chile project”, rende note le informazioni che emergono dai primi 5.800 documenti desecretati quattro mesi prima dall’amministrazione guidata dal presidente Bill Clinton, trascorsi tre mesi dall’arresto londinese del generale Pinochet. Per conoscere, se non tutta, una parte sufficientemente rivelatrice delle responsabilità statunitensi nel corso del triennio 1970-73, ci sono voluti ventisei anni.
Il rapporto della Cia – Hinchey Report – sul colpo di Stato in Cile, non va visto come la narrazione di una serie di avvenimenti accaduti “eccezionalmente” al termine di una drammatica crisi, ma è il paradigma di una concezione della politica nella quale la lotta al comunismo ha rappresentato la giustificazione – e talvolta l’alibi – per ogni tipo di intervento e per l’appoggio a quei regimi dittatoriali che, pur non garantendo libertà e democrazia, sono stati sostenuti per i loro meriti nella lotta anticomunista, così come è accaduto per decenni in America Latina nella seconda metà del secolo scorso.
Sono forse ormai del tutto note la forma e la misura dell’intervento (“covert action”) del Dipartimento di Stato statunitense nella vicenda cilena durante gli anni del governo della Unidad popular, così come anche il coinvolgimento diretto nella preparazione del colpo di Stato dell’11 settembre e la conoscenza, da parte di Henry Kissinger, delle atrocità commesse dalla repressione della giunta militare.
Ammirato e rispettato dall’élite e dalla destra nordamericana, Kissinger sostenne le dittature latinoamericane nel quadro della campagna globale del governo Nixon contro il comunismo all’epoca della Guerra Fredda.
É stato accertato dalla Commissione Church che complessivamente nel triennio 1970-73 l’amministrazione Nixon, in Cile, investì circa otto milioni di dollari in favore delle opposizioni all’Unidad Popular. Un’analisi delle azioni contro il Cile, in seguito alla vittoria di UP, è riflessa chiaramente nella dichiarazione di Arnold Nachmanoff, consigliere principale di Kissinger per gli Affari cileni: «È importante evitare, anzitutto, una provocazione aperta ad Allende che avrebbe l’effetto di rinforzarlo». In breve, il consigliere descriveva la politica statunitense sul fronte cileno come «silenziosa ma potente», caratterizzata soprattutto da una forte morsa finanziaria in cui, in effetti, si viene a trovare il Paese andino.
Già nella corsa alle presidenziali del 1970, il “40 Committee”, l’organismo del Consiglio di sicurezza nazionale incaricato di autorizzare le operazioni della Cia, presieduto da Henry Kissinger, allora consigliere del presidente Richard Nixon, aveva ordinato all’Agenzia di svolgere operazioni di disturbo allo scopo di prevenire l’eventuale vittoria di Allende. In particolare, il presidente aveva dato precise istruzioni all’ambasciatore Usa in Cile, Edward Korry, di porre in atto «qualsiasi tipo di azione simile alla dominicana», ovvero all’invasione avvenuta a Santo Domingo nel 1965.
Ma è nel triennio 1970-73 che si concentrarono le ingerenze cospirative di Washington con il sostegno attivo del regime brasiliano: «Un governo di Allende – dichiarò Korry – sarebbe peggiore di un governo Castro». La preoccupazione statunitense di un possibile “effetto Cile” nel subcontinente, ma non solo, era ai massimi livelli. Il 4 settembre Kissinger manifestò tutta la sua preoccupazione per le future ripercussioni della vittoria della UP fino al cuore del polo strategico dell’Europa occidentale: «Penso che non ci si debba illudere che l’ascesa al potere in Cile di Allende non crei grossi problemi, a noi, alle nostre forze, in America Latina e all’emisfero occidentale tutto […]. Inoltre, lo sviluppo politico del Cile è gravido di pericoli per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti a causa delle influenze che può esercitare sulla Francia e sull’Italia».
A Washington, dieci giorni dopo l’insediamento alla presidenza della Repubblica di Allende, il 3 novembre 1970, Richard Nixon convocò una riunione ufficiale del suo Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSC). Solo pochi funzionari riuniti quel giorno nella Sala del Gabinetto della Casa Bianca sapevano che, sotto gli ordini di Nixon, la CIA aveva segretamente tentato di istigare un colpo di Stato militare per impedire ad Allende di assumere la carica presidenziale. E aveva fallito. Ma perché eliminare un presidente della Repubblica eletto democraticamente? In un Memorandum del 5 novembre 1970, Henry Kissinger coglie immediatamente le potenzialità del progetto allendista e scrive al presidente Nixon che si trovano di fronte a «una delle rivalità più serie che abbiamo affrontato nell’emisfero». Come scriverà anni più tardi il capo del Dipartimento di Stato, «nel 1973 non c’erano alternative […] gli Stati Uniti non potevano permettersi di perdere il Cile».
Così avvenne. L’unica transizione democratica al socialismo conosciuta nell’emisfero occidentale fu schiacciata sotto il tallone delle forze armate cilene con il placet e il sostegno economico-militare degli Stati Uniti e nel silenzio dell’Unione Sovietica. Quando Henry Kissinger pronunciò la sua testimonianza davanti alla Commissione per le Relazioni Estere del Senato, avanzò questa giustificazione: la «preservazione della democrazia». E paradossalmente affermò: «L’intenzione degli Stati Uniti non era quella di destabilizzare o sovvertire, ma di continuare a sostenere i partiti politici dell’opposizione… La nostra preoccupazione erano le elezioni del 1976 e non un colpo di Stato come quello del 1973 di cui non sapevamo nulla e con la quale non avevamo nulla a che fare».
Kissinger ha ribadito poi questa versione nelle sue memorie, The White House Years. Ma i documenti declassificati poi lo smentiranno: «“La questione, quindi, è se possiamo adottare misure – creare pressioni, sfruttare le debolezze, amplificare gli ostacoli – che come minimo assicureranno il suo fallimento (di Allende) o lo costringeranno a modificare le sue politiche, e al massimo potrebbero portare a situazioni in che potrebbero essere più fattibili quelli il cui collasso o rovesciamento in seguito potrebbero essere più fattibili» (informativa riservata del 18 ottobre 1970). Non si può non accennare a un aspetto rilevante dell’intera vicenda cilena, ovvero l’appoggio di Kissinger anche alle forze di estrema sinistra per colpire dall’interno l’Unidad popular. Secondo quanto è emerso dalle ricerche condotte con tenacia da Patricia Verdugo è «possibile che la Cia abbia operato infiltrandosi nelle file del Mir o nel settore più estremo del Partito socialista […]. O che abbia destinato parte delle sue ‘azioni coperte’ ai piccoli partiti della sinistra cristiana che fecero parte della coalizione di Unità popolare. O forse lo ha fatto con tutti loro».
Questa tesi è confermata dalle trascrizioni delle conversazioni tra Nixon, Kissinger e Pinochet, pubblicate dal “New York Times” nel 2003, dalle quali emerge che il segretario di Stato all’indomani del golpe dichiarò che «il governo militare è migliore di quello che c’era con Allende, per questo noi appoggiammo movimenti (di sinistra) che intendevano farlo cadere».
«Farò quel che posso»
È rimasta ai posteri una frase di Kissinger al primo ministro degli Esteri argentino dell’ultima dittatura, l’ammiraglio César Augusto Guzzetti, durante un incontro del 10 giugno 1976 a Santiago del Cile: «Se ci sono cose che devono essere fatte, realizzatele in fretta. Ma dovrebbero tornare rapidamente alle normali procedure». Anche per quanto riguarda l’Argentina, secondo una grande quantità di file del Dipartimento di Stato che sono stati declassificati nel 2016, l’ex segretario di Stato si è congratulato con i generali per la “guerra sucia” con la quale la dittatura militare argentina del 1976-83 ha “spazzato via” il terrorismo. Durante i suoi anni come segretario di Stato, Kissinger incoraggiò la giunta militare argentina a debellare il “terrorismo”.
Nel primo rapporto sostanziale al Segretario di Stato Kissinger su un “Possibile colpo di Stato in Argentina”, a metà febbraio 1976 (un mese prima del golpe) il vicesegretario di Stato William Rogers indicò la probabilità di violazioni dei diritti umani dopo una presa di potere militare. «Ci aspetteremmo che [il governo militare] sia amichevole nei confronti degli Stati Uniti», informò Kissinger. «Tuttavia, intensificando la lotta contro la guerriglia, un governo militare argentino sarebbe quasi certo coinvolto in violazioni dei diritti umani tali da suscitare critiche internazionali. Ciò potrebbe portare a pressioni da parte dell’opinione pubblica e del Congresso degli Stati Uniti che complicherebbero le nostre relazioni con il nuovo regime».
Il 7 ottobre 1976, sei mesi dopo il colpo di Stato a Buenos Aires, Kissinger incontrò nuovamente Guzzetti. «Il nostro principale problema è il terrorismo. Garantire la sicurezza interna del Paese ha bisogno da parte degli Stati Uniti di comprensione e supporto, anche per la crisi economica», disse il militare argentino all’amico americano. «Abbiamo seguito le vicende argentine da vicino. Vediamo bene il nuovo governo e vogliamo che ce la faccia. Faremo il possibile», lo rassicurò Kissinger. All’epoca della stretta di mano all’Hotel Astoria la stampa statunitense aveva cominciato a denunciare alcuni abusi, specie dopo che il Congresso e la stessa ambasciata Usa in Argentina si erano lamentati proprio con Guazzetti anche per il sequestro e la tortura di cittadini americani. Le violazioni che avevano caratterizzato i primi mesi del regime erano dunque ben note. Kissinger, rinnegando le motivazioni che lo avevano portato al Nobel per la Pace nel 1973, si mostrò comprensivo. «Sappiamo che siete in difficoltà. […] Capiamo che dovete stabilire un’autorità. Farò quel che posso». Sulla consapevolezza del gran burattinaio della politica estera Usa non ci sono dubbi. Il 9 luglio 1976, tre mesi prima del vertice al Wardof Astoria, il principale consigliere di Kissinger, Harry Shlaudeman, gli forniva particolari sui sistemi di Buenos Aires, dove veniva applicato «il metodo cileno: terrorizzare l’opposizione, anche a costo di uccidere preti e suore». Perciò Kissinger, nonostante la condiscendenza, fu costretto a mettere in guardia il collega argentino: «Prima avrete finito meglio sarà», disse a Guzzetti.
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato giovedì 30 Novembre 2023
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