La democrazia rappresentativa è per gli italiani una conquista recente, frutto delle lotte partigiane e della fine del regime fascista. La grandezza di tale conquista fu che a una democrazia istituzionale si affiancarono i diritti sociali che soli danno valore alla democrazia rappresentativa e senza i quali essa rimane corpo morto. La rappresentatività, volente o nolente, ha delineato la cornice entro cui sono state formalizzate tutte le maggiori conquiste, in termini di diritti sociali e tutele del lavoro. Basti pensare allo Statuto dei lavoratori, ottenuto a seguito di durissime lotte della classe operaia nei confronti delle classi dominanti. Questo è accaduto proprio grazie alla centralità del Parlamento e alla rappresentanza delle minoranze in esso. Non è un caso quindi che questi diritti siano venuti meno con il graduale svuotamento delle istituzioni rappresentative, in primis, proprio del Parlamento.
Negli ultimi due decenni si è cercato di rafforzare e accentrare il potere nelle mani del Governo e ciò è andato avanti costantemente, con i decreti legge, quasi mai realmente urgenti; con il fatto che la maggior parte dell’attività parlamentare non riguarda l’iniziativa legislativa, ma consiste nell’intervenire continuamente per convertire proprio i decreti-legge e dare pareri su atti del Governo; con le relative questioni di fiducia. Questa anomalia, di fatto, ha sottratto all’intervento della legislazione ordinaria interi settori, provocando in questo modo il trasferimento della sede del potere decisionale dal Parlamento al Governo, rendendo sempre meno operante quella democrazia rappresentativa così duramente conquistata.
Il prossimo referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, raccontato subdolamente come un “taglio delle poltrone”, si inserisce perfettamente in questo contesto testé delineato. Stiamo parlando, infatti, di un provvedimento non necessario, non urgente e su cui nutro molti dubbi di natura giuridica e politica, che meriterebbero attenta valutazione e non una riduzione in slogan superficiali e demagogici. Siamo di fronte ad una riforma senza alcuna motivazione sostenibile tranne quella qualunquista delle “poltrone inutili” e della “casta sprecona” che peraltro non saranno minimamente intaccate. Si riduce la democrazia in luogo degli sprechi. Perché non incidere sulle nomine di dirigenti esterni che si sommano alla costosissima burocrazia già esistente, o al continuo proliferare di società a partecipazione pubblica inutili, o ancora sulle commissioni fatte nascere per gli amici, o sulle tantissime consulenze costose e fuori dal controllo. Si vada a vedere dove stanno gli sprechi reali e ci si accorgerà che questi non dipendono affatto dal numero dei parlamentari ma dal loro costo diretto e indiretto. Si umilia ancora una volta e pesantemente il Parlamento trasformandolo in un’assemblea superflua, mentre, all’Italia servirebbe esattamente il contrario e cioè il ritorno alla sua centralità.
Una vera democrazia è forte se realmente rappresenta i cittadini attraverso organismi autorevoli e riconosciuti cui i cittadini rivolgono la loro piena fiducia. Contro tali mistificazioni, è necessario gridare a gran voce che l’unico voto veramente “utile” è per il NO, ridando così voce alle lotte partigiane che hanno portato in Italia la democrazia parlamentare come conquista di libertà al prezzo di tanti morti e di tanta sofferenza! Per questi motivi, con animo sereno mi accingo a votare convintamente NO!
Vincenzo Musacchio, giurista, professore di diritto penale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA) e ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.
Pubblicato martedì 1 Settembre 2020
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