Governo, così detto del “cambiamento”, scansato; corrispondente “contratto” (ovvero programma concordato) forse archiviato. Poi, per un sortilegio da ascrivere alla pazienza del Quirinale, governo rilanciato e corrispondente “contratto” di nuovo sul tavolo per avviarlo a realizzazione. Tutto secondo il più classico “contro ordine, compagni!” (se compagni lo fossero). La cronaca brucia i fatti, ma non la dialettica dei giudizi sull’accaduto.
Alle origini di un rapido processo che da crisi di governo è degenerato in crisi istituzionale (a quanto pare la più grave nella storia della Repubblica) non c’è stata una qualche “marcia su Roma”, ma, si potrebbe dire, contro Roma (se la si intende, Roma, come improprio sinonimo ben più che soltanto di establishment, anche di Costituzione).
Infatti, sembra sensato escludere che il voto del 4 marzo sia stato un rispecchiamento dell’anima politica degli italiani (che sono, in gran parte, antifascisti), mentre è chiaro che esso ha convogliato, sotto la spinta di almeno due convergenti centrali demagogiche (5Stelle e Lega), il largo e profondo disagio dei ceti popolari italiani del Nord e del Sud nei canali di una specie di “rivolta elettorale” i cui caratteri indiscutibilmente populistici si coniugano con pericolose implicazioni neofasciste, di particolare visibilità nella parte leghista.
Come è noto, entrambi i soggetti politici che si ritengono “vincitori” delle elezioni (per quanto il convincimento, unilaterale su entrambi i fronti, abbia però molto di pretenzioso), dopo uno stallo di circa tre mesi, sono finalmente pervenuti al traguardo di una defatigante trattativa per dar vita ad un governo, imperioso sul parlamento e sullo stesso presidente della repubblica, investendone formalmente l’ineffabile, e per la politica quasi anonimo, professor Giuseppe Conte, determinando una sostanziale modificazione del ruolo che la Costituzione attribuisce al presidente del Consiglio.
L’irritualità delle procedure alle quali abbiamo assistito per la formazione del governo lascia prevedere, o meglio temere, parecchie ulteriori anomalie con esiti imprevedibili per la tenuta stessa della istituzioni democratiche. A sua volta, il programma, ovvero il “contratto” (terminologia anodina, questa, adoperata per mascherare una sempre negata alleanza politica), si presta alle più svariate interpretazioni e ai più conflittuali giudizi. Al netto delle critiche di cui può essere fatto oggetto con riferimento alle sue contraddizioni e ai limiti della sua attuabilità senza danni per l’economia del Paese, se ne potrebbero proporre almeno due diverse letture da due corrispondenti punti di vista, l’una dal Nord e l’altra dal Sud. Ed è la seconda ‒ una lettura che dovrebbe preoccupare soprattutto il M5S data la distribuzione geografica del consenso elettorale conseguito ‒ quella che meglio riesce a mettere in luce la sprovvedutezza, l’inconsistenza progettuale e il complessivo vuoto di strategia che connotano la retorica del “cambiamento”.
È noto che la commissione paritetica di parlamentari ed esperti dei due movimenti “contraenti” in un primo tempo si era letteralmente dimenticata di includere nel “contratto” un qualsivoglia riferimento alle problematiche del Mezzogiorno nella prima bozza resa nota ai media. Si è poi affrettata a giustificare l’omissione in un breve paragrafo inserito, quasi controvoglia, nella versione finale del “contratto” avanzando ‒ a riprova degli eccellenti seppure impliciti propositi di governo vantati ‒ due singolari argomenti, l’uno che direi di metodo, l’altro di contenuto.
Il primo, che è giustificativo, è il seguente: non si era ritenuto necessario uno specifico riferimento al Mezzogiorno e ai suoi problemi perché nella strategia del “governo del cambiamento” Sud e Nord compongono un unitario, indivisibile orizzonte nel quale attuare paritariamente e in modo organico le operazioni di buona politica necessarie per rilanciare lo sviluppo e assicurare l’auspicata rinascita di tutto il Paese dai disastri provocati da decenni di malgoverno. Come dire: quel che salverà il Nord salverà anche il Sud, per quanto non proprio viceversa. Un’asserzione comunque assai generica, questa, e soprattutto dagli evidenti caratteri filistei, che prescinde del tutto dalle condizioni reali di un insuperato e persino aggravato sottosviluppo del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese di cui i dati forniti sia dall’Istat che dall’Eurostat continuano a denunziare le assai “speciali” emergenze economiche e sociali.
In realtà, sono dati da brivido. A partire dalla disoccupazione che è il più vistoso: secondo la più recente rilevazione Istat del marzo 2018, la disoccupazione ufficiale è nel Sud del 19,4%, il triplo di quella del Nord e il doppio di quella delle regioni dell’Italia centrale. A parte ovviamente quella giovanile che sale a livelli da vertigine: tanto per limitarci soltanto ad alcune regioni, il 58,7% in Calabria, il 54,7% in Campania, il 52,9% in Sicilia. Per quanto riguarda le previsioni di sviluppo al di là della grande crisi dell’economia ancora non superata, il Rapporto Svimez 2017 ha già indicato che, ai ritmi di crescita prevedibili, il Sud tornerà ai livelli pre-crisi soltanto nel lontano anno 2028, mentre il Nord potrebbe raggiungere tale meta già nel prossimo anno 2019. Intanto, sempre nelle regioni del Sud, oltre un terzo della popolazione è a rischio povertà, mentre è evidenziabile ovunque una “povertà assoluta” (dieci meridionali su cento) che cresce e si addensa soprattutto nelle periferie delle aree metropolitane. Nel complesso, una società in enorme sofferenza con punte ricorrenti di disperazione: una spirale in cui si rincorrono bassi salari e lavoro nero, spopolamento e nuova emigrazione, bassa produttività, bassa competitività, ridotta accumulazione.
A fronte di così perniciose ed allarmanti “specificità” dell’attuale situazione meridionale, il generico orientamento progettuale indicato dal “contratto di governo” (l’assorbimento dei problemi del Sud nel programma di un’operazione onnicomprensiva per la rinascita nazionale) equivale di fatto a cancellare con un tratto di penna la stessa questione meridionale. Per chi ha memoria storica un orientamento del genere non ha altro precedente che quello costituito dalle retoriche e gaglioffe certificazioni circa la definitiva “fine” della questione meridionale in Italia elargite da Mussolini, nel 1940, alla propaganda del suo regime. Tuttavia, se si vuole, potrebbe vedersi anche come l’estremo esito della colposa sottovalutazione del gap Nord/Sud, nonché dei problemi del Mezzogiorno, dopo la lunga fase delle politiche di intervento straordinario, il cui fallimento si è trascinato anche in un lungo silenzio sulle ragioni stesse del meridionalismo. Un silenzio che direi nordista (in un certo senso analogo per qualità a quello che, in altro campo e per altri motivi, è calato a lungo sulla partecipazione dei meridionali alla Resistenza e alla guerra di liberazione). È normale che un Salvini non ne sia minimamente preoccupato. Stupisce però che un Di Maio, meridionale e campano, non se ne mostri ben avvertito e consapevole.
Il secondo argomento avanzato a riprova degli eccellenti propositi di governo per il Sud è il seguente: il “contratto di governo” ha tra i suoi principali punti ‒ che, secondo la propaganda leghisto-pentastellata, ne segnerebbero l’eccezionale portata sociale ‒ il varo del “reddito di cittadinanza”, sbandierato come misura decisiva per fronteggiare l’emergenza della disoccupazione e poiché si tratta di un’emergenza che, nel quadro nazionale, investe principalmente le regioni meridionali, sarebbe da ritenersi scontato che dei suoi benefici effetti godrebbero soprattutto le regioni meridionali. Argomento che in apparenza non fa una grinza, quasi un sillogismo. Ma esso semplifica all’inverosimile e vincola alla mera dimensione dell’emergenza i problemi strutturali (di cui si elude persino la conoscenza) corrispondenti ai ritardi e all’insufficiente sviluppo del Mezzogiorno; e, piuttosto che avviarli a soluzione, addirittura prefigura un aggravamento di quelli specifici del lavoro. Infatti, proprio nel Sud, più che altrove, è da ritenere scontato che l’eventuale accesso al “reddito di cittadinanza” conviverebbe con il “lavoro nero” (inevitabilmente ancor più sottopagato) al quale i beneficiari continuerebbero a ricorrere, sottoponendosi al consueto sfruttamento, ad integrazione dei previsti 780 euro pro-capite erogati dallo Stato. Ne conseguirebbero ulteriori vantaggi per gli sfruttatori e per i banditi e per i parassiti del mondo del lavoro, nelle more del promesso funzionamento dei cosiddetti “Centri per l’impiego”, ammesso e non concesso che poi si riesca davvero a farli funzionare e a sottrarli ai condizionamenti delle mafie. In ogni caso, secondo quanto quell’archiviato “contratto di governo” lasciava prevedere, le grandi problematiche sociali del Mezzogiorno sarebbero state fondamentalmente rimesse al progetto di realizzare, come salvifico, una sorta di assistenzialismo organico e strutturato. Il che, va detto, è in perfetta continuità con le meno virtuose tradizioni della società meridionale, costretta secolarmente a subire gli effetti incrociati dell’arretratezza e del parassitismo.
Quasi a coronamento, ovvero a compiuta verifica, di una progettualità di governo riassumibile in un format del genere “Come ti faccio sparire la questione meridionale”, c’è da segnalare le omissioni che, nel testo di quel “contratto”, riguardano la lotta al fenomeno mafioso.
Non che si eviti di parlarne, ma i relativi propositi di azione sono consegnati al registro onnicomprensivo della “sicurezza” e del contrasto alla cosiddetta “criminalità organizzata” (in altri termini, ad un puro e semplice impegno repressivo, per quanto coniugato con contestuali invocazioni della pubblica eticità contro la corruzione), senza mostrare la benché minima consapevolezza circa il fatto che il fenomeno mafioso ‒ in specie quello della Cosa Nostra siciliana, così come è stato ancora una volta evidenziato dallo scandalo che di recente ha coinvolto il presidente della Confindustria siciliana insieme a un’estesissima aggregazione di politici, imprenditori, professionisti e persino carabinieri ‒ è molto, molto di più di una fenomeno di formale “criminalità”; ed è un fenomeno di turpe e pervasivo potere, tanto politico quanto economico e sociale, che, estesosi in tutta Italia, mantiene nel Sud sia le sue basi storiche sia le sue principali centrali di radicamento sociale a partire dai ceti dirigenti. C’è da temere che, date le insufficienze di cultura politica sul fenomeno mafioso qui rilevate, se le forze populistico-neofasciste per disavventura del Paese andassero al potere, piuttosto che ad una vera e propria lotta alla mafia assisteremmo soltanto alla progettata lotta all’emigrato; nel contempo, contro le mafie, nel migliore dei casi continuerebbe a svolgersi l’azione repressiva fin qui perseguitasi in Italia con qualche successo, mentre nel peggiore, che è il più probabile, si darebbe corso ad una riesumazione o radicalizzazione di quanto in materia si era già sperimentato durante i lontani anni del regime fascista colpendo i “criminali” ma salvando e rafforzando nel sistema di potere il ruolo dei loro numerosi complici, i veri mafiosi di rango, quelli dai “colletti bianchi”. Quest’ultimi, infatti, non avrebbero grandi difficoltà a vestire in fretta la felpa di Salvini, come ai tempi del fascismo la camicia nera.
Prof. Giuseppe Carlo Marino, storico, Presidente onorario dell’Anpi Palermo
Pubblicato venerdì 1 Giugno 2018
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/come-ti-faccio-sparire-la-questione-meridionale/