Era il 21 dicembre 1970, quando, dopo due mesi dall’insediamento alla Presidenza della Repubblica del Cile, Salvador Allende, annunciò dal palazzo de La Moneda che avrebbe firmato il decreto per avviare la nazionalizzazione delle miniere di rame, ovvero l’oro cileno: “Voglio ora riferirmi al rame. E desidero che ogni uomo e ogni donna che mi ascoltano comprendano l’importanza dell’atto con cui firmeremo il progetto destinato a modificare la Costituzione politica, affinché si possa nazionalizzare il rame e il Cile possa divenire proprietario della sua fondamentale ricchezza: cosicché il rame appartenga ai cileni. (…) Lo faremo per rendere possibile il progresso materiale del nostro Paese, per garantire la nostra sovranità e per dimostrare che la dignità del Cile e la sua indipendenza non hanno prezzo, né sono soggette ad alcuna pressione o minaccia”.
Esattamente un anno dopo, il presidente Allende invierà al Congresso il progetto di nazionalizzazione delle miniere di rame chiarendo che il “futuro del Cile è quello di assumere nelle proprie mani le decisioni del proprio cammino”.
La via era stata tracciata, e il 15 luglio 1971 il Congresso promulgò la storica riforma costituzionale che nazionalizzava la Gran Minería del Cobre (Gmc), cioè i grandi giacimenti di El Teniente, Chuquicamata, Potrerillos, El Salvador e Exóticat, fino ad allora sfruttati dalle compagnie statunitensi.
Ma perché nella storia del Cile era tanto importante il controllo delle attività estrattive del rame? Dei 280 milioni di tonnellate in cui erano stimate le riserve mondiali del prezioso metallo nel 1970, il Cile ne possedeva non meno di 54 milioni, che corrispondevano a quasi il 20% del totale. Se nel secolo precedente era stato il primo produttore al mondo, nel 1971 probabilmente era il Paese che possedeva le maggiori riserve del metallo rosso del globo. Per Allende, per il governo di Unidad Popular e per la stragrande maggioranza dei cileni, la nazionalizzazione delle filiali delle corporazioni straniere, e in particolare nordamericane, rappresentava un passaggio storico perché puntava a rompere il vincolo di compartecipazione con il capitale straniero nella gestione delle proprie risorse naturali e nell’utilizzo dei relativi introiti. La nazionalizzazione rappresentava uno spartiacque nelle relazioni economiche tra il governo cileno e le multinazionali, nonché un esempio da seguire per altri Paesi latinoamericani, tanto che si parlò di un “modello Cile” con effetti internazionali, in particolar modo per le economie del cosiddetto Terzo mondo, dipendenti dalle esportazioni dei minerali di alto valore sfruttati dalle corporazioni multinazionali.
In sostanza Allende intendeva spezzare il giogo dell’imperialismo che per decenni aveva sottomesso e dissanguato l’economia cilena impedendole di espandersi su altri mercati internazionali e di uscire dal vincolo della “dipendenza”, tipica dei cosiddetti “Paesi sottosviluppati”. I dati parlavano chiaro: nel 1970, le esportazioni di rame rappresentavano circa l’81% della media annuale e ben l’80% della produzione del minerale era sotto il controllo di imprese straniere.
La “rivoluzione allendista” conteneva anche (inconsapevolmente) una vocazione internazionale e di esempio per quelle realtà emergenti che si erano da poco lasciati alle spalle il passato coloniale. In questo senso rimane memorabile il discorso del presidente Allende all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 4 dicembre 1972 in cui denunciò il “dramma del sottosviluppo”: “Siamo Paesi potenzialmente ricchi, [ma] viviamo in povertà. Vaghiamo da un luogo all’altro chiedendo crediti, aiuti e, tuttavia, siamo – paradosso del sistema economico capitalista – grandi esportatori di capitale”.
A distanza di cinquant’anni, sotto la presidenza di Gabriel Boric, cambia la risorsa naturale, ma gli obiettivi politico-strategici rimangono i medesimi: tutelare gli interessi del popolo cileno e rafforzare l’economia nazionale. Con i presidenti Frei Montalva e Allende come punti di riferimento per il rame, il presidente Boric cerca oggi di fare del Cile il leader mondiale nel litio.
I presupposti sono stati già enunciati nel discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite tenuto dal presidente il 20 settembre 2022: “Tra pochi mesi saranno cinquant’anni anni da quando il Presidente Salvador Allende, proprio da questa sede in cui ho l’onore di essere oggi, ha reso conto degli importanti cambiamenti sociali e politici che stava vivendo il nostro Paese. Perché siamo un Paese che da tempo cerca la propria strada verso la dignità e, sebbene durante i governi democratici degli ultimi trent’anni la povertà si sia notevolmente ridotta e ci siano stati importanti progressi in materia sociale, è innegabile che il modello di sviluppo che abbiamo adottato in Cile ha mantenuto un’alta concentrazione di ricchezza, portandoci ad essere uno, e questo fa male a noi colleghi, uno dei Paesi più diseguali del mondo. Questa disuguaglianza, come sicuramente accade in molte nazioni in via di sviluppo, ha ostacolato il nostro cammino di sviluppo, ma non solo, è una minaccia latente per la democrazia, poiché spacca la società stessa, distrugge la coesione sociale e, quindi, finisce per essere un impedimento alla comprensione e alla costruzione di un futuro più libero e giusto”.
Non sorprende che lo scorso 20 aprile il Capo di Stato cileno ha annunciato la Strategia nazionale del litio, che sarà diretta dallo Stato con l’obiettivo di trasformare il Paese nel principale esportatore al mondo, come già avvenuto con il rame. “Il litio ci presenta una grande opportunità di sviluppo che non possiamo perdere e dobbiamo farlo diversamente da come abbiamo fatto prima”, aggiungendo che “abbiamo definito che lo Stato sia presente durante tutto il ciclo di produzione del litio. E per questo invieremo in Parlamento, dopo il processo partecipativo, il disegno di legge per la creazione di una Società Nazionale del Litio e del Comitato Corfo Litio e Salares, garantendone anche la sostenibilità nel medio e lungo termine”.
Il Cile fa parte del cosiddetto “triangolo del litio”, la zona geografica tra le saline di Hombre Muerto (Argentina), Atacama (Cile) e Uyuni (Bolivia), in cui è conservato circa l’80% delle riserve mondiali di litio. Individuato all’inizio degli Anni 50 come una componente necessaria per l’energia nucleare, durante la dittatura del generale Augusto Pinochet venne dichiarato risorsa strategica e svenduto ai gruppi minerari. Già nel 2021 si è registrato un aumento del prezzo dell’“oro blanco” pari al 486%, mentre le previsioni parlano di una crescita annuale della domanda del 16,4% tra il 2019 e il 2030, e l’America Latina è la regione con le maggiori riserve di litio al mondo. Il processo è irreversibile.
Si capisce perché l’attuale presidente abbia voluto sottolineare il fatto che “il potenziale che abbiamo è enorme”, aggiungendo anche che questa politica nazionale tutelerà le aree protette e che saranno stipulate alleanze tra enti pubblici e aziende private. Tuttavia, in questo disegno, lo Stato cileno avrà sempre la maggioranza nelle attività estrattive: “La nostra scommessa, cari connazionali, è per lo sviluppo scientifico e tecnologico perché vogliamo che il Cile sia il principale produttore di litio al mondo, ma producendo e dando valore aggiunto al litio, generando filiere produttive e trasferimenti tecnologici; formare le nostre persone, capire che la nostra ricchezza non è solo nella terra, ma anche nella conoscenza che generiamo e nel valore che aggiungiamo ai prodotti che estraiamo”.
Si tratta, mutatis mutandis, di un’impostazione politico-economica che richiama la pioneristica visione di Salvador Allende quando affermava che “la battaglia per la difesa delle risorse naturali fa parte della battaglia condotta dai paesi del Terzo Mondo per superare il sottosviluppo”.
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato mercoledì 17 Maggio 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/cile-da-allende-a-boric-quelle-nazionalizzazioni-strategiche/