Due giorni di dibattito intenso, molti spunti per futuri approfondimenti, la consapevolezza di misurarsi con temi cruciali, anche per quanto riguarda le prospettive politiche a breve e medio termine, affrontati però in modo tale da non deflettere dal rigore dell’analisi storica e quindi dalle problematicità che ad esso inevitabilmente si accompagnano: questo, in estrema sintesi, un primo giudizio del Convegno di Marzabotto “Le visioni della democrazia dopo il fascismo. Idee costituzionali prima del 25 luglio 1943”, promosso dall’ANPI in collaborazione con la Fondazione Gramsci, la Fondazione Lelio e Lisli Basso e l’Istituto Luigi Sturzo.
Già il presidente dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo, nelle conclusioni dell’incontro e nel successivo editoriale su Patria ha tracciato una valutazione d’insieme nella quale si dà conto ampiamente dei termini di un confronto che, partendo dalla ricerca e dall’analisi dei complessi percorsi lungo i quali hanno preso corpo le principali culture politiche costituenti, ha messo in luce la distanza siderale tra il passato e il presente.
E proprio a partire da questa constatazione, è possibile svolgere alcune considerazioni sulla necessità di un lavoro di scavo sulle radici della nostra democrazia e sulle insidie che la circondano. A confronto con la complessità e la lungimiranza delle scelte di politica costituzionale nate dall’urgenza di comprendere la natura dei grandi traumi che hanno accompagnato la prima metà del secolo passato e dal travaglio derivante dall’ascesa dei fascismi in Europa, il dibattito istituzionale odierno appare infatti dominato dalla preoccupazione di procurare vantaggi, anche se temporanei, alla propria parte politica, e ispirato a visioni e proposte (oggi, presidenzialismo/premierato e autonomia differenziata) che sembrano modellate sull’esigenza di perseguire un radicale mutamento della forma di governo, attraverso la verticalizzazione del potere e lo svuotamento dell’istituto parlamentare, all’inseguimento di un’opinione pubblica sempre più fluttuante, ma sicuramente sensibile a proposte securitarie e a progetti di democrazia plebiscitaria.
Si rende dunque necessaria e indifferibile una ricerca dei rimedi più idonei a fare fronte ai veri nodi della attuale crisi della democrazia, crisi soprattutto di partecipazione e di rappresentanza – aggravata in questi ultimi anni dai difficili contesti della pandemia e della guerra – che, come l’ANPI ha più volte sottolineato, può trovare risposte adeguate in una sistematica attuazione della Costituzione del 1948 piuttosto che nei ricorrenti tentativi di un suo stravolgimento.
Se si pensa al tema del Convegno di Marzabotto (per ragioni di brevità, nelle righe che seguono non si citeranno le singole relazioni), quello che colpisce, in primo luogo, è che di fronte alla drammaticità del momento storico, nel palesarsi della crisi del fascismo, alcune organizzazioni sicuramente minoritarie nel Paese, gruppi di giovani delusi dal regime e ormai consapevoli della fallacia delle sue promesse “sociali”, combattenti abbandonati a sconfitte umilianti, nonché singole personalità, incerte sul proprio destino e sulla stessa sopravvivenza fisica in un’Europa dominata dall’Asse, non rinunciarono a condurre una riflessione di ampio respiro, sulle prospettive di un futuro che, almeno fino a Stalingrado, non sembrava promettere nulla di buono.
In circostanze straordinarie, i tanti personaggi e gruppi più o meno organizzati evocati dal Convegno non rinunciarono a progettare il futuro, a interrogarsi su come uscire da una crisi epocale, sui rapporti sociali ed economici che avrebbero dovuto spezzare le rigide gabbie categoriali dell’ordinamento corporativo, sulle istituzioni maggiormente idonee a realizzare l’obiettivo di restituire la voce a chi era stato condannato al silenzio dai regimi fascisti europei, a dare, insomma, una forma razionale e a tradurre in progetto politico e giuridico l’afflato etico che è ed è stato alla base dell’antifascismo: la speranza di un mondo migliore, e l’incoercibile volontà di iniziare a concepirlo e a progettarlo, proprio nei momenti più difficili, nella clandestinità, nelle trincee, nelle isole di confino o nel buio di una prigione.
Un altro dato che è emerso con chiarezza dal Convegno di Marzabotto è quello dell’antifascismo come terreno di incontro e di unione tra le generazioni: sono i giovani, prevalentemente intellettuali espressi dal ceto medio, che iniziano un processo molecolare, ma non per questo meno rilevante, di distacco dal fascismo e di approdo all’antifascismo attraverso uno sforzo di comprensione della realtà circostante che incontra la generazione precedente, quella degli sconfitti dell’Aventino, degli esuli e dei tanti esiliati in patria, e dà vita a quei percorsi di ripensamento degli approcci, delle analisi e dell’esperienza del primo dopoguerra, dai quali sarebbero scaturite le premesse per le successive elaborazioni in sede di Assemblea Costituente. E non solo i giovani intellettuali: giovani e giovanissimi sono anche gli operai delle fabbriche del Nord che nella primavera del 1943 incrociano le braccia con i loro compagni di lavoro più anziani, uniti dalla stanchezza per una guerra perduta, dalla fame, dai turni massacranti, dalla paura dei bombardamenti, ma anche dalla volontà di un riscatto politico e sociale dopo un ventennio di oppressione.
Emblematica, a proposito dell’incontro tra generazioni, è anche la travagliata vicenda del passaggio dal popolarismo al partito cattolico del secondo dopoguerra, guidato in larga misura dalla generazione formatasi nel primo dopoguerra, e anche precedentemente, ma stimolato al rinnovamento ideale e politico dai giovani dirigenti cattolici dell’IRI, dai fermenti dell’Azione cattolica, dalle FUCI, tutti mondi nei quali si discutono temi cruciali che dall’idea di un nuovo rapporto tra Stato ed economia, sollecitato dalla novità del keynesismo, e quindi tra pubblico e privato, pervengono al superamento del concetto di individuo attraverso l’affermazione della centralità della persona, mentre la matrice antistatuale del primo pensiero sociale cattolico si evolveva nella sottolineatura del ruolo essenziale dei corpi intermedi, delle autonomie territoriali, sociali e politiche, del partito come canale della partecipazione popolare, nella prospettiva della costruzione di una democrazia socialmente avanzata che riuscì a opporsi con successo alla propensione, presente ai vertici delle gerarchie vaticane, per una sostituzione del regime crollato il 25 luglio 1943, con un ordinamento corporativo e autoritario, sul modello salazariano.
Non meno articolati e complessi, peraltro, i problemi e gli indirizzi che si dibattono all’interno di una sinistra inizialmente divisa, ma alla ricerca di una strada verso un’unità che alla metà degli anni Venti appariva ancora una meta utopistica, per le roventi polemiche tra i comunisti e i socialisti e per le dinamiche contraddittorie dei rapporti tra la Concentrazione antifascista, alleanza laico-socialista dei partiti in esilio, e Giustizia e Libertà, di Rosselli e Lussu, attivisticamente protesa verso una presenza militante in Italia.
L’avvento del nazismo in Germania è l’elemento scatenante di una discussione che investe in primo luogo il giudizio sul fascismo, come espressione politica della volontà di dominio incontrastato del capitalismo monopolistico, spinto dall’aggravarsi delle sue contraddizioni a sbarazzarsi delle forme democratiche che pure in passato aveva propugnato, ma che ora apparivano il terreno più favorevole alla realizzazione degli obiettivi di cambiamento economico, sociale e politico propugnati dalle organizzazioni economiche e politiche della classe operaia e dei suoi alleati. Proprio in ragione della volontà di smantellamento delle organizzazioni autonome dei lavoratori, una volta raggiunto il potere che gli era stato consegnato dalle oligarchie dominanti, il fascismo aveva attuato un modello ordinamentale del tutto diverso dai sistemi autoritari del passato, presentandosi come regime reazionario di massa, nel quale la negazione delle libertà fondamentali andava di pari passo con la costruzione di apparati capillari di inquadramento e di mobilitazione della società civile organizzati non solo in funzione anti popolare ma anche in preparazione della guerra di conquista, sbocco finale di un nazionalismo esasperato, elemento costitutivo dell’ideologia fascista.
Soprattutto negli anni Trenta, l’attenzione dell’antifascismo di sinistra si sarebbe concentrata sul rapporto tra democrazia e socialismo, nel presupposto dell’esaurimento del ruolo progressivo di una borghesia che, nei suoi strati più elevati, si era consegnata al fascismo per mantenere integra la propria posizione di supremazia, logorata da crisi sempre più gravi, fino a quella del 1929. Ammaestrati dalla sconfitta subìta in Germania, socialisti e comunisti giungono faticosamente alla conclusione che spetta alla classe operaia il compito di aggregare un fronte sociale e politico quanto più possibile ampio per difendere dalla minaccia fascista e sviluppare lo Stato di diritto, la democrazia parlamentare, il pluralismo politico, la garanzia dei diritti individuali, come istituti che rendono possibile il pieno dispiegarsi del conflitto di classe e con esso l’assunzione di contenuti sociali sempre più avanzati suscettibili di trasformare la democrazia formale, quella che sancisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, in una democrazia sostanziale che attribuisce al potere pubblico il compito di creare le condizioni di una eguaglianza reale, non solo scritta negli articoli delle costituzioni.
È un percorso non lineare, poiché implica una presa di distanza, non sempre esplicita, da modelli precedenti: per i comunisti, nei fatti, dalla dittatura del proletariato di matrice leninista; per i socialisti dall’estremismo parolaio del massimalismo e dalle illusioni gradualistiche del riformismo fiducioso in una evoluzione lineare verso il socialismo; per le correnti liberaldemocratiche dalla constatazione che le classi abbienti avevano sostenuto o quanto meno non ostacolato la nascita dei regimi totalitari e parti consistenti del ceto medio vi si erano riconosciute, fornendo una solida base di massa.
Conclusasi la guerra con la sconfitta militare delle potenze dell’Asse, appariva dunque centrale l’esigenza di iniziare a pensare a come tradurre in norme giuridiche cogenti l’aspirazione popolare a una più intensa partecipazione alla vita pubblica non limitata da ostacoli di carattere materiale e organizzata in modo da canalizzare le spinte più diverse in proposte politiche compiute.
La discussione si svolge attorno all’ipotesi di una democrazia che non si limita alle enunciazioni di principio, non statica, ma dinamica, “progressiva”, come verrà definita, perché realizzatrice di condizioni di partecipazione e di eguaglianza che secondo i partiti di ispirazione marxista avrebbero dovuto facilitare il passaggio verso una società socialista, senza però fare venire meno i pilastri della democrazia parlamentare e pluralista, ma che comunque, trasposta nel progetto costituzionale, che aveva dovuto fare i conti con le diverse ispirazioni ideali e con i diversi obiettivi di ciascuna formazione politica, avrebbe definito termini e modalità di un sistema costruito secondo i canoni dello Stato di diritto, del pluralismo, della rappresentanza elettiva e della tutela dei diritti individuali, ma aperto alle più radicali trasformazioni economiche, sociali e culturali.
Non per nulla, nel dopoguerra, cadono alcuni degli architravi che avevano sorretto gli ordinamenti dei periodi passati, come l’inviolabilità della proprietà privata e l’assoluta libertà dell’iniziativa privata, mai messe in discussione negli ordinamenti liberali e assoggettate in tutte le costituzioni del secondo dopoguerra a limiti inimmaginabili in passato, posti a tutela della libertà, della sicurezza e dell’autonomia delle persone; o come il dogma della sovranità dello Stato quale principio di supremazia assoluta, del quale si erano alimentati i nazionalismi e gli imperialismi, e che venivano ora messi in discussione con la nascita delle Nazioni Unite e dal federalismo europeo.
Non si può infine non sottolineare come la Resistenza abbia attivato meccanismi di partecipazione e di mobilitazione sociale, poi codificati nella Costituzione repubblicana, che, nel giro di pochi mesi, avevano realizzato trasformazioni che in tempi normali avrebbero richiesto anni: si è già sottolineata l’importanza dell’incontro di generazioni diverse e distanti, non solo nel tempo, ma anche nello spazio, dato che molti dei protagonisti della Resistenza e della Costituente rientrarono in Italia, dopo il 25 luglio 1943, concludendo un esilio durato molti anni; ma altrettanto importante è il ruolo delle donne, naturalmente all’opposizione di un regime che le aveva relegate in una posizione di assurda subalternità e che con la guerra aveva provocato, tra l’altro, lo sfaldamento di legami familiari e sociali trascinati nel gorgo della guerra e destinati probabilmente a precipitare senza una prima, tenace e irriducibile difesa delle forme elementari della vita associata, difesa della quale la componente femminile fu la principale, se non unica, protagonista. L’opposizione antifascista delle donne, manifestatasi nelle forme più varie, fino alla partecipazione diretta alla lotta di Liberazione, dà il segno più significativo del carattere plurale della Resistenza, dei vari modi in cui essa si svolse, delle diverse forme in cui si manifestò. Né, a questo ultimo proposito, si dovrà trascurare di approfondire la storia della Resistenza disarmata degli Internati militari italiani in Germania.
L’importanza del Convegno di Marzabotto sta dunque nell’assunzione della pluralità delle radici ideali della Resistenza e della carta costituzionale come tema di studio e di approfondimento, che, certamente, non dovrà schiacciarsi in una dimensione meramente apologetica e celebrativa, proprio perché lo studio della storia costituzionale della Repubblica non può prescindere dal fatto che la Costituzione stessa e la sua attuazione è stata oggetto di una contrapposizione tra le forze politiche costituenti di maggioranza e di opposizione, riflesso della divisione del mondo in blocchi, che ha condizionato per molti anni, fino alla caduta del Muro di Berlino, la politica italiana ed europea, mentre invece, negli ultimi anni, si è affermata la stravagante convinzione che le disfunzioni del sistema politico derivino dalla Costituzione, da riformare (ovvero, da stravolgere) in nome di un principio di governabilità che altera profondamente i meccanismi del pluralismo e della rappresentanza, ma che continua a trovare convinti sostenitori a destra e a sinistra, tra i molti esponenti di un ceto politico prevalentemente intenzionato ad autoassolversi delle proprie inadeguatezze (per non dire di peggio) e incline a dare vita a una narrazione idonea a celarle agli occhi di una opinione pubblica sempre più frastornata e disorientata.
In questo lavoro di approfondimento e anche di divulgazione dei valori e dei contenuti della Costituzione, un ruolo fondamentale può essere svolto dagli istituti di cultura, che, dopo la scomparsa dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, si sono trovati nella difficile ma importante posizione di essere tra i principali detentori della memoria delle culture costituenti, gravati del non facile compito di tutelare, conservare e fare conoscere un patrimonio archivistico e bibliografico di grande rilevanza. Anche per questo aspetto, è auspicabile che la promozione del Convegno di Marzabotto insieme alla Fondazione Gramsci di Roma, alla Fondazione Lelio e Lisli Basso e dell’Istituto Luigi Sturzo non sia una iniziativa isolata, ma l’inizio di una collaborazione proficua e articolata attorno all’esigenza di fare dell’iniziativa in difesa della Costituzione un grande momento di maturazione culturale del Paese e di promozione di una pedagogia civile, della quale si avverte sempre più acutamente il bisogno.
Pubblicato mercoledì 12 Luglio 2023
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/antifascismo-ritorno-allanno-primo/