Il 9 maggio 1978 viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro, crivellato di colpi, nel bagagliaio di una Renault R4 rossa in via Caetani, a Roma. Lo stesso giorno su un binario della ferrovia nei pressi di Cinisi (Palermo) si scoprono i frammenti di un corpo umano, quello di Peppino Impastato, saltato in aria per una carica di tritolo. Tanti anni dopo – siamo nel 2007 – viene approvata la legge in base a cui “la Repubblica riconosce il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, quale ‘Giorno della memoria’, al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”.
Il 9 maggio del 1978 si avvia una nuova fase della storia d’Italia. Si sa chi e perché assassinò Peppino Impastato. I nomi sono quelli di Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti, condannati in via definitiva rispettivamente nel 2001 e nel 2002. Un osceno delitto di mafia contro un giovane che incarnava la voglia, che aveva unito un’intera generazione, di battersi per un mondo migliore. E per Peppino la mafia rappresentava il peggiore dei mondi possibili. C’è anche una verità processuale per l’omicidio di Aldo Moro e degli uomini della scorta che furono assassinati durante il rapimento. Ma non si sa ancora e ragionevolmente non si saprà mai se e in quale misura fossero implicati la loggia massonica P2 di Licio Gelli, l’intelligence degli Stati Uniti (Cia) e l’organizzazione Gladio, la rete clandestina della Nato che si opponeva all’ascesa del Pci in Italia.
Con l’omicidio di Moro si chiude la possibilità di un accesso al governo del Paese da parte dei comunisti italiani e – si potrebbe aggiungere – si avvia quel gigantesco “ritorno all’indietro” civile, sociale e politico di un’Italia che nel giro di un decennio si era profondamento trasformata grazie alle lotte di milioni di lavoratori e di studenti ed al portato di tali lotte, dallo Statuto dei lavoratori al diritto di famiglia, al divorzio, all’aborto, alla formazione, alle condizioni contrattuali del mondo del lavoro. A queste conquiste – e a tante altre – aveva corrisposto una straordinaria crescita popolare della coscienza antifascista, una visione della politica, oggi del tutto rimossa, come impegno e servizio, e una vera rivoluzione dei costumi e della mentalità, sull’onda di un movimento mondiale di rinnovamento che aveva messo all’ordine del giorno i temi della libertà, della democrazia, della partecipazione, dell’eguaglianza e della giustizia sociale. Questione sociale e questione civile si coniugavano finalmente in modo virtuoso; dalla filigrana di questi cambiamenti emergeva il profilo di un’altra Italia, di un grande cantiere di umanità e di dignità in grado di tagliare finalmente il complesso e spesso oscuro ginepraio di fili che legavano ancora la nazione al suo peggiore passato, il fascismo. Fra mille contraddizioni, fu comunque il decennio dell’avvicinamento allo spirito della Costituzione ed alla sua reale applicazione; la Costituzione, si diceva allora, deve entrare nelle fabbriche.
La reazione ci fu, certo, e fu sanguinosa e sanguinaria: piazza Fontana, l’Italicus, piazza della Loggia, una lunghissima e ininterrotta scia di sangue e di stragi eseguite da organizzazioni nazifasciste e organizzate da poteri oscuri, a cominciare dai servizi segreti.
Poi c’è quel 9 maggio. Due anni dopo, il 27 giugno c’è l’abbattimento del Dc9 dell’Itavia sui cieli di Ustica e il 2 agosto c’è la strage di Bologna. Massacri, operazioni coperte di guerra, depistaggi. L’Italia peggiore. L’Italia nera. E per un periodo di tempo successivo ma specialmente precedente a quel 9 maggio il Paese è colpito dalle azioni criminali della Brigate Rosse, di Prima Linea e di altre associazioni paramilitari accomunate da un delirio ideologico completamente funzionale agli interessi di tutta la destra, quella eversiva e quella parlamentare. Fra le tante vittime degli assassini brigatisti, l’operaio comunista Guido Rossa. Sono le 6.35 del mattino del 24 gennaio 1979 quando gli sparano.
Sono passati 42 anni, scomparsi tutti i partiti del tempo, azzerate gran parte delle conquiste sociali e civili, moltiplicato in progressione geometrica il tasso di diseguaglianza, in un mondo nuovo, irriconoscibile ed ancora in gran parte sconosciuto, in cui sorgono nuovi dispotismi e in cui tante democrazie si contorcono come avvelenate da un tarlo di consunzione e la stessa legalità, quella legalità a difesa della quale Peppino Impastato ci lasciò la pelle, viene ogni giorno violata da un meccanismo mafioso oramai diffuso sul territorio nazionale e da un composto di corruttele e di scandali che ha sfregiato l’immagine della politica italiana.
Di questo degrado c’era stata visione e previsione in particolare nei due leader politici fra i più autorevoli del tempo: Aldo Moro ed Enrico Berlinguer.
Aldo Moro a Bari, il 21 dicembre 1975, affermava fra l’altro: “Certo, l’acquisizione della democrazia non è qualche cosa di fermo e di stabile che si possa considerare raggiunta una volta per tutte. Bisogna garantirla e difenderla, approfondendo quei valori di libertà e di giustizia che sono la grande aspirazione popolare consacrata dalla Resistenza. Il nostro antifascismo non è dunque solo una nobilissima affermazione ideale, ma un indirizzo di vita, un principio di comportamenti coerenti. Non è solo un dato della coscienza, il risultato di una riflessione storica; ma è componente essenziale della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa, sul terreno sociale come su quello politico, conservazione e reazione”.
Il 28 luglio 1981, nel corso di una famosa intervista, Enrico Berlinguer così rispondeva a Eugenio Scalfari: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. (…) Ma poi, quel che deve interessare veramente è la sorte del Paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi: rischia di soffocare in una palude. Ma non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?”.
E siamo qui oggi noi, piegati dalla calamità della pandemia, però pronti a ricostruire. Ma il modello non può essere quello dell’Italia di questi anni, e neppure di questi decenni. La sfida è totale, perché riguarda il lavoro, l’ambiente, la pace, la democrazia, la legalità. Il sonno della democrazia genera fascismi. Eppure si può fare. Pensiamo alle parole di Aldo Moro, o di Enrico Berlinguer. Pensiamo al coraggio della scelta di Peppino Impastato. Pensiamo ai nostri partigiani, all’Italia che volevano. Pensiamo al partigiano che divenne Presidente, Sandro Pertini. Pensiamo alla nostra Costituzione.
Da queste radici e con i mille e mille rami del Paese migliore, il Paese che abbiamo visto e riconosciuto questo 25 aprile, può crescere la nuova Italia. Può rinascere.
Pubblicato sabato 9 Maggio 2020
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