Il castello di Bosco di Corniglio

Il 17 ottobre 1944 fu uno dei giorni più infausti della Resistenza parmense e italiana: l’attacco di sorpresa e l’eccidio del Comando Unico parmense a Bosco di Corniglio, nell’Appennino. Il Comando si era spostato ai primi di ottobre dalla Valle del Taro – la sede era a Castello di Mariano – a quella del Parma, a seguito degli ordini di fine settembre del Comando Militare Alleato, che con il primo messaggio Alexander alle formazioni partigiane aveva richiesto di predisporre la loro dislocazione su nuove posizioni, pronte alla discesa in pianura per favorire l’avanzata delle truppe alleate. L’obiettivo era superare la linea appenninica: la V e la VIII armata avrebbero dovuto raggiungere il Po prima dell’inverno.

Partigiani della Valle del Taro, Parma (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Il periodo settembre-ottobre era considerato decisivo. Lo spirito unitario aveva cominciato a dare i primi frutti anche nel Parmense: il Comando riuniva “circa 2.500-3.000 uomini, armati in gran parte di armi automatiche leggere, con scarso munizionamento” (1). Le Brigate erano otto: quattro Garibaldi, tre “autonome” vicine in qualche modo alla Dc, una di Giustizia e Libertà. Le formazioni furono chiamate a un ruolo di primo piano in quella battaglia anche dal Corpo Volontari della Libertà di Milano. I partigiani credevano di avere la certezza di realizzare nell’autunno del 1944 ciò che si realizzerà soltanto nell’aprile del 1945. Le cose andarono in modo diverso non solo per la reazione dei tedeschi ma anche e soprattutto perché prevalsero negli Alleati altre priorità di impegno. La collocazione geopolitica dell’Italia pesò nello sviluppo del movimento resistenziale, come ha scritto Claudio Pavone: “La prima considerazione è che il Mediterraneo era un teatro di guerra secondario per i tedeschi, per gli americani e per i sovietici. Gli unici che gli conferivano centralità nella condotta delle operazioni erano gli inglesi, specialmente Churchill. Tuttavia gli Alleati occidentali, quando apparve del tutto chiaro che l’Italia era l’anello debole dell’Asse e che era possibile farla uscire dalla guerra, concentrarono su di essa i propri sforzi. Per Churchill era una opzione geo-politica, per Roosevelt una operazione militarmente secondaria, capace peraltro di fornire il grande successo politico di debellare la seconda potenza dell’Asse. Realizzato questo obiettivo, l’Italia divenne un fronte secondario. La lentezza dell’avanzata alleata che ne derivò ebbe forti ripercussioni sull’Italia come tale e, in particolare, sulla Resistenza. L’Italia rimase tagliata in due per venti mesi” (2).

Primo Savani

Il Comando Unico parmense e le formazioni partigiane si trovarono particolarmente esposti all’attacco nemico. Bosco di Corniglio era una località troppo pericolosa: fu una scelta che oggi appare inopportuna, ma che è ben spiegabile nel contesto – pieno di illusioni – del periodo. Si pensi al fatto che prevalse la scelta – ha raccontato il Commissario politico del Comando Unico, Primo Savani “Mauri” – di “dislocare le brigate nei luoghi dove si poteva attaccare il nemico” e non per proteggere il Comando Unico, “che avrebbe dovuto spostarsi sistematicamente, ed in caso di necessità anche d’urgenza”.

“Non era stato previsto il tradimento” (3), che invece ci fu. L’attacco si sviluppò, come emerge dai documenti tedeschi (4), nell’ambito della nuova offensiva militare decisa da Albert Kesselring: la cosiddetta “settimana della lotta alle bande” tra l’8 e il 14 ottobre 1944. Leggiamo la testimonianza di uno dei sopravvissuti, il sarzanese Franco Franchini “Franco”, giovane Ispettore del Comando Unico: “Nella colonna tedesca c’era un traditore, Mario lo Slavo. Fatto prigioniero in un’azione di guerriglia, costui aveva mercanteggiato la propria libertà con la promessa di condurre i tedeschi a sorprendere il Comando partigiano, nel cuore della notte, in Bosco. Si deve ai mulattieri, presi come ostaggi per guidare con i loro muli le forze tedesche, se la sorpresa non raggiunse il suo completo risultato. I mulattieri, consapevoli della tragedia che si sarebbe verificata giungendo a Bosco a notte inoltrata, ritardarono la marcia allungando il percorso in modo da raggiungere il paese soltanto al mattino del 17 ottobre. […]

La resistenza dei partigiani fu più che strenua. Fu veramente eroica. Il Comandante Pablo (Giacomo di Crollallanza, nda) cadde, fulminato dalla mitraglia, colpito in più parti del corpo; egli aveva ingannato i tedeschi sul numero dei partigiani impegnati nel combattimento, correndo da una finestra all’altra sventagliando colpi col suo mitra. Cadde con l’arma in pugno, sul tappeto di erba all’inizio del bosco di castagni, dietro l’albergo Gherardini [attiguo alla sede del Comando, nda]. Menconi (Renzi), Comandante della Piazza di Parma, cadde invece sulla porta del Comando, crivellato di colpi. Egli non morì all’istante: poco dopo, ultimata la strage, i tedeschi appiccarono il fuoco al letto sul quale giaceva il suo corpo agonizzante. Giuseppe Picedi Benettini (Penola) Comandante di Brigata, addetto ai collegamenti, morì colpito alla fronte, là dove agli eroi viene posata la corona di alloro, mentre disperatamente sparava contro il nemico. […]

Da memo.it ilprogetto collaborativo di Anpi nazionale. Foto di Ezio Della Mea, 2009, tutti i diritti sono riservati

Tre autentici eroi. Ciascuno con pensiero politico diverso, ma tutti con il sentimento dello stesso dovere […]. Altri tre partigiani […] immolarono alla Patria la loro giovane vita: Enzo Gandolfi, Domenico Gervasi, Settimo Manenti. Dei pochi uomini che componevano il Comando in Bosco, in tutto 14 persone, quella mattina sei lasciarono la vita in combattimento; gli altri, per vero miracolo, scamparono alla morte” (5).

Bardi, paese del Parmense incendiato dalle truppe tedesche (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Il 14 ottobre erano venuti al Comando, per una riunione per programmare le azioni militari in pianura e in città in vista dell’insurrezione che si riteneva prossima, i responsabili del Comando di Piazza di Parma e i componenti del CLN. Risolte alcune questioni controverse e predisposti i piani, i partecipanti erano tornati in città la mattina del 16 ottobre. Solo “Renzi” era rimasto per perfezionare alcune intese. “Penola” era rientrato, zuppo fradicio, la sera del 16 da una missione in Valmozzola. Alle otto e trenta del 17 giunse la notizia dell’arrivo dei tedeschi, coperti dalla nebbia e dalla pioggia. Come ha raccontato Franchini, “Pablo” e “Penola” cominciarono a fare fuoco da varie stanze dell’albergo per dare l’impressione di essere in tanti: ritardarono così la manovra dei tedeschi, consentendo agli altri di fuggire dal retro, con un salto dalle finestre verso i boschi. “Renzi” fu ucciso nell’attigua sede del Comando. Primo Savani, accorso in suo aiuto, fu miracolosamente illeso. Gli altri tre partigiani caduti erano addetti alla guardia, uccisi alla periferia di Bosco.

Il vicecomandante Giacomo Ferrari e il Comandante della Prima Brigata Julia Primo Brindani “Libero” raggiunsero i primi distaccamenti partigiani della 12a Garibaldi e di Giustizia e Libertà e organizzarono il contrattacco e inseguirono i tedeschi in fuga, che erano coperti ancora dalla nebbia. I sopravvissuti del Comando raggiunsero il giorno dopo il luogo dell’eccidio. Ecco la testimonianza di “Mauri”: “I cadaveri di Renzi e Penola erano irriconoscibili, così deformati e consunti dalle fiamme. Coloro che si erano salvati, raccontavano avventure raccapriccianti. […] Le salme furono allineate in una stanza al pianterreno dell’albergo. Vennero accesi dei ceri. Quivi i superstiti sostarono in religioso raccoglimento. Non si fecero discorsi. Pellizzari (Achille Pellizzari “Poe”, vice commissario politico delle Brigate Julia, nda) disse: “Sono morti per la nostra idea”, e Mauri: “Vi vendicheremo”. […] Ci riunimmo nella chiesetta di Bosco. Tutte le case avevano le porte chiuse e non era il caso di costringere quella povera gente, ancora in preda alla disperazione, a darci ospitalità. Occorreva procedere al riordinamento del Comando, alla sostituzione di Pablo, alla convocazione dei comandi di brigata, alla continuazione dell’attività bellica. Tutto ciò accadde nell’atmosfera religiosa della chiesa, come si trattasse di un rito.

L’agguato tedesco, pur nel dolore per le gravi perdite, anziché fiaccare, aveva resa ancora più tesa la nostra volontà di lotta per vincere ad ogni costo la feroce tracotanza nemica. All’ingegner Ferrari, che assunse da quel momento il nome di ‘Arta’ venne interinalmente conferito il comando militare. I comandanti di brigata furono convocati a Belforte” (6). Savani ricorda la marcia verso Belforte: “Nell’attraversare la strada della Cisa, percorsa dai tedeschi (la notte era buia), per non smarrirsi, e per rinsaldare la nostra unità nella vita e nella morte, con ancora davanti agli occhi le salme sfigurate dei nostri compagni arsi vivi, facemmo catena, tenendoci per mano” (7). Il 23 ottobre il Comando Unico risultava così formato: “Arta” Comandante, Achille Pellizzari “Poe” Commissario politico, Leonardo Tarantini “Nardo” Capo di Stato Maggiore. La nuova sede fu inizialmente in Val Noveglia.

Il 21 ottobre un pubblico processo innanzi al Tribunale militare partigiano aveva condannato a morte “Mario lo Slavo”. Dopo la Liberazione “Poe” dettò per i Caduti l’epigrafe impressa sul marmo murato nella facciata dell’albergo Ghirardini. Nella dedica del libro del 1946 Oggi… 23 novembre “Poe” scrisse: “Pablo, Penola, Renzi, cari compagni di fede, abbiamo diviso i rischi e il duro pane della combattuta vigilia, e l’attesa e le delusioni e l’incrollabile certezza, ma non l’ardore dell’ultima battaglia, né la gioia della vittoria. Ma quegli che vi vide morire al suo fianco, e per immeritato privilegio vi sopravvisse, ogni giorno rievoca, nei tanti raccoglimenti del suo cuore, la vostra generosa giovinezza, i vostri volti splendenti di placido riso” (8).

Giacomo di Crollalanza

Giacomo di Crollallanza

Siciliano, nato a Modica (Ragusa), Giacomo di Crollalanza frequentò l’Accademia militare di Modena. Giovane u’fficiale in Albania, fu rimpatriato nel maggio del 1943 perché gli fossero curate le ferite riportate in uno scontro. Savani racconta la vicenda di Giacomo dopo l’8 settembre: “Per istinto rifiutò di aderire al nuovo ordine. Ebbe occasione di conoscere Giuseppe Guatelli, commesso viaggiatore, vecchio militante dell’antifascismo che aveva conosciuto il carcere e il confino. Non vi era altra via d’uscita per vivere. Giacomo di Crollalanza venne assunto come agente produttore, e andò in giro per le città dell’Emilia, con una pesante valigia di minuterie metalliche e coltellerie di ogni genere.

Cadde ben presto nella rete spionistica e venne incarcerato. Gli fu offerta la libertà a condizione che accettasse di assumere servizio nell’esercito nazifascista. Nell’occasione fu percosso a sangue. Il suo desiderio era quello di uscire per cominciare ‘sul serio’, come diceva lui, la lotta contro i nemici della Patria. L’evasione tanto sospirata fu favorita da un’incursione aerea che nel giugno 1944 danneggiò il carcere di San Francesco (9). Rimase a Parma qualche giorno per riordinare le sue poche cose, consegnò la divisa da ufficiale ad una famiglia di conoscenti e, munito di una rivoltella, prima di recarsi in montagna, salutò gli intimi: ‘Da oggi se verranno a prendermi dovranno fare i conti con questa’.

A Vianino, sopra Varano Melegari, era in corso un’azione. I partigiani erano in possesso di una mitragliatrice che Pablo sapeva manovrare molto bene. Per diverse ore, Pablo, lacero, la barba incolta, semplice partigiano fra partigiani, finché ebbe munizioni, tenne testa ai tedeschi. Ferito si lasciò rotolare dal ciglio sul quale si trovava e i tedeschi lo credettero morto. Poco dopo, quei partigiani lo vollero Comandante del Distaccamento. Seppe che quel Guatelli che lo aveva aiutato era stato arrestato. Fece dei prigionieri tedeschi e pretese, in occasione del cambio, la liberazione del benefattore. Venne poi eletto Comandante della 31a Garibaldi, della quale era Commissario politico Luigi Leris ‘Gracco’, di origine bergamasca, nobile figura di antifascista e partigiano. La 31a Garibaldi divenne ben presto una delle brigate meglio organizzate e più efficienti. Quando Pablo venne assunto al Comando Unico, dagli occhi di Gracco spuntarono delle lacrime.

[…] Nel nuovo Comando Unico Pablo partecipava alle discussioni che erano piuttosto numerose, ma il suo cuore era nelle località dove i partigiani erano impegnati negli scontri a fuoco con i tedeschi. Si rendeva conto della sua nuova posizione, e nulla eccepiva a chi gli faceva presente che il Comandante del Comando Unico non doveva e non poteva per ovvie ragioni esporsi continuamente nelle azioni di guerriglia. Poi sull’imbrunire si dileguava, si recava cioè dove era in corso un combattimento, e ricompariva il giorno dopo. Godeva di un grande prestigio. Nei primi tempi i partigiani non sapevano neppure come fosse il Comando Unico, ma sapevano benissimo chi era Pablo, il ‘comandante’” (10).

Università di Parma

“Pablo”, garibaldino, non aveva fedi politico-partitiche precise. Forse era un “monarchico democratico”, chissà… certamente aveva ideali di rispetto umano ed era animato dalla fratellanza, che si potrebbe intendere come sintesi di libertà e di uguaglianza. “Operiamo tutti ancora e sempre come fratelli”, scriverà “Arta” (11), interpretando il valore morale più alto della Resistenza. Iscritto nella Università di Parma alla facoltà di Ingegneria, a Giacomo di Crollalanza venne conferita nel 1946 la laurea ad honorem alla memoria.

Giuseppe Piceni Benettini

Giuseppe Picedi Benettini

Conte – erede di un antico casato arcolano-sarzanese, nello Spezzino – Giuseppe Picedi Benettini era anch’egli uno studente di Ingegneria. Scelse la lotta antifascista nel marzo 1944. Il termine “monarchico democratico” forse si attaglia più a lui, se non altro per l’educazione senz’altro ricevuta. Partigiano della II Brigata Julia, partecipò a numerose azioni nella Valle del Taro e fu Comandante di un suo Distaccamento, prima di essere chiamato a far parte del Comando Unico.

La lapide ai Caduti dell’eccidio a Bosco di Corniglio del 17 ottobre 1944,posata nella sede del Comando Unico Parmense (foto Giorgio Pagano)

Due giovani studenti – un ufficiale siciliano e l’erede di una famiglia nobile del Levante Ligure – e un comunista “bolscevico” come Gino Menconi: la tragedia del 17 ottobre 1944 ci fa capire come, al di là dei contrasti e delle rivalità politiche tra i partiti del CLN, che pure furono molto forti, l’unità che si realizzò non fu fittizia. Era per tanti aspetti un’unità reale, di azione e politica, e di valori morali. La “volontà di pace” e “l’amore per la libertà della nostra Patria” unirono Pablo, Penola e Renzi, “fraternamente abbracciati sotto la terra nuda” (12).

Gino Menconi

La lapide in memoria di Gino Menconi nella sua casa di Avenza (foto Giorgio Pagano)

Mi soffermerò ora su Gino Menconi, grande avenzino e grande italiano. Antifascista, persona di vivissima umanità, fu un comunista con un tratto molto originale. Mi avvarrò, nel raccontare la sua vita, del libro di Antonio Bernieri Gino Menconi nella rivoluzione italiana (13), ancora oggi fondamentale, e di alcune testimonianze di persone che conobbero Menconi in vita, tra cui lo stesso Bernieri, intellettuale e militante comunista a Carrara durante la Resistenza. Gino nacque nel 1899 ad Avenza, allora terra di contadini e di libertari. Proveniva dalla piccola borghesia, ma fu una figura esemplarmente “popolare”, nel senso della “capacità di connessione con il popolo”.

Manifestazione in ricordo di Gino Menconi – Avenza 17 ottobre 2024 (foto Giorgio Pagano)

Come gli altri ragazzi del 1899, partecipò alla Prima Guerra Mondiale. L’esperienza della guerra e delle sue sofferenze fu per lui molto importante: conta l’uomo, più che l’idea astratta; la vita è il bene più grande che ci sia dato di godere. Ma la vita deve essere libera, come diceva la cultura politica allora egemone nella città natale di Menconi. Poi Gino conobbe il fascismo, il prodotto della guerra. Era un repubblicano, come quasi tutti nell’Avenza di allora. Ed era radicalmente antifascista. Avanzò, con altri giovani, la proposta delle “Avanguardie repubblicane” – squadre armate contro il fascismo – naturalmente rifiutate del partito.

L’università Ca’ Foscari a Venezia

Nel 1921 andò a studiare Economia e Commercio a Venezia, a Ca’ Foscari. Furono gli anni della svolta nella sua vita. Nel 1924 Gino era disgustato dai partiti aventiniani. Il suo antifascismo radicale si poneva la domanda: come sostanziare questa posizione? Il mazzinianesimo gli appariva sempre più, ormai, un valore appartenente a un mondo del passato. Questo processo di maturazione politica non esauriva la vita del giovane Menconi: era uno dei più noti esponenti della goliardia veneziana, amava le arti, la musica, il teatro, il ballo. E le donne.

La commemorazione dell’80° dell’Eccidio a Bosco di Corniglio (foto Giorgio Pagano)

Era pronto all’azione: aveva partecipato, nel 1923, allo scontro tra carraresi e fascisti sul ponte di Rialto. Nel 1924, alla notizia dell’assassinio di Giacomo Matteotti, impose, con altri giovani, l’interruzione del concerto nel Caffè Quadri di piazza San Marco. Era coraggioso: non aveva paura fisica, e nemmeno psichica, come dimostrerà nei duri anni del carcere e del confino. A Venezia ebbero influenza su di lui due socialisti più anziani, diventati comunisti: Enrico Voceri e Gerolamo Li Causi. L’adesione di Menconi al PCd’I risale probabilmente al 1924. Al centro della riflessione, per un giovane con la sua formazione, non poteva che esserci la questione della libertà: Gino voleva la libertà in concreto, sostanziale, la libertà dei lavoratori. La sua scuola non fu l’Università, ma la strada e la piazza. “Gino – ha scritto Bernieri – amava incontrarsi con la gente, discutere, imparare dalla discussione, assorbire l’esperienza altrui ed in questo era facilitato dalla sua grande capacità di comunicativa e di socievolezza” (14).

Gino Menconi “Renzi”

Si laureò alla fine dell’anno accademico 1924, poi fu insegnante per qualche mese a Chiavari. In prossimità delle vacanze di Natale del 1924, il fratello maggiore Umberto lo raggiunse per avvertirlo di non tornare a casa, perché i fascisti di Carrara lo cercavano per aggredirlo e picchiarlo. Nel 1925 si trasferì a Milano, dove fece l’impiegato. Nel settembre 1926 – l’anno della sconfitta certa di fronte al fascismo – il Questore di Milano mise il suo nome accanto a quello dei carraresi Gino Lucetti, l’attentatore di Mussolini, e Gino Bibbi. Lo credeva di tendenza anarchica. Da qui la scelta dell’espatrio. Gino fu per tre mesi in Austria, poi in Cecoslovacchia, quindi in Lussemburgo, dove lavorò come muratore. Poi ancora a Parigi, a Berlino, e per quasi due anni in Urss. Partì alla fine dell’inverno del 1928, destinazione la scuola leninista di Mosca. Qui visse fino all’ottobre 1930.

Il simbolo del PCd’I

Fu un’esperienza non solo politica ma di costume, di “mentalità bolscevica”: un patrimonio di valore che molto contò dopo, nella lotta al fascismo e nella Resistenza. C’è tuttavia un intreccio tra il bolscevismo, l’insegnamento gramsciano che aveva ricevuto in Italia nel PCd’I e la sua critica giovanile al repubblicanesimo. Qualcosa gli restò, di quella formazione, e fece di lui un comunista particolare: non uno stalinista dottrinario, con gli schemi lontani dalla vita. Un comunista bolscevico un po’ gramsciano e un po’ libertario. E con un carattere gioviale, come testimoniarono Arturo Colombi e Teresa Noce. Colombi lo definì “goliardico” pure a Mosca, ma nel contempo “serio e disciplinato” (15).

Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato

Dopo la scuola leninista, Palmiro Togliatti volle mandarlo a Napoli. Erano gli anni della “svolta”: si riteneva possibile la rivoluzione in Italia, in realtà impossibile. Fu un’ecatombe di militanti comunisti, uccisi, incarcerati, confinati. Ma il partito in questo modo si radicava sempre più nella società italiana come partito radicalmente antifascista. Menconi fu impegnato nel Centro interno, diretto da Battista Santhià, e poi a Napoli, dove fu arrestato il 5 luglio 1931. Le lettere dal carcere al padre, fino al gennaio 1932, quando si tenne il processo davanti al Tribunale Speciale, sono significative: “Quando ho dei buoni libri mi sembra di non essere più in prigione. […] Del mio stato non mi pento. Sono calmo, sereno…” (16). Nelle lettere parlava semplicemente anche di cose gravi, a conferma della sua profonda conoscenza dell’anima popolare.

Antonio Gramsci, fondatore del PCd’I

Al processo Menconi fu condannato a 17 anni. Il suo compagno di carcere Eugenio Reale scrisse che “il suo contegno davanti alla polizia e davanti ai giudici fu esemplare, addirittura eroico” e che al cancelliere e a un giudice andati nella sua cella per leggergli la sentenza, Menconi gridò “viva l’Italia, viva il comunismo!” (17). Emerge qui il significato nazionale, non puramente di classe, della politica comunista contro il fascismo. Ritorna l’insegnamento gramsciano, della frase che Gramsci alla fine del “processone” del 1928 ebbe a pronunciare: “Voi condurrete l’Italia alla rovina, spetterà a noi comunisti salvarla! (18)”. Il discorso di Amendola del 18 ottobre 1964 a Carrara, nel ventennale della morte, è incentrato sul rapporto tra la vita di Menconi e il significato nazionale della politica del partito. Ambedue privilegiavano nella politica del Pcd’I il momento nazionale, insieme a quello di classe. La “guerra patriottica” accanto a quella “di classe”, per dirla con Claudio Pavone. Che avevano entrambe il tratto anche della “guerra civile”, perché il fascismo era al servizio dell’invasore e perché la guerra civile dopo l’Ottobre era anche guerra di classe (19).

Menconi fu confinato a Finalborgo (Savona). Da qui scrisse al padre: “Vieni ad abbracciare il tuo figlioccio un po’ matto” (20). A Finalborgo gli fu compagno Stefano Vatteroni, anarchico avanzino. Con lui imparò nuovamente a parlare il dialetto. Poi fu trasferito a Perugia: con Vatteroni si ritroveranno a Ventotene. Infine a Civitavecchia. Liberato nel 1936, per via dei condoni, restò libero solo per sette mesi. Fece il confino a Ponza per due anni, un anno e mezzo stette a casa ad Avenza, quindi fu confinato a Ventotene per tre anni, dopo un condanna a cinque anni nel 1941. Ritornò ad Avenza il 20 agosto 1943 e partecipò alla prima fase della Resistenza a Carrara, dando vita ai GAP. La Resistenza ai monti non era ancora matura. Bernieri lo conobbe allora: “La sua vita, di cui io allora non conoscevo niente, si fondeva con la vita del partito” (21). E tuttavia: [… restò sempre sensibile alle attenzioni femminili, che talvolta si prolungavano troppo s’inframmettevano coi suoi doveri di militante” (22) .

Parma, palazzo del Governatore

Era un comunista serio ma anche umano. Nel febbraio 1944 si spostò a Firenze, nel Comitato militare di partito e in quello unitario. Quando usciva dalle riunioni diceva: “Qui non ci vogliono generali di carriera, ma giovani pieni di inventiva e di iniziativa” (23). È una frase importante, perché non fu facile l’incontro tra due generazioni, tra i comunisti “ventotenisti” e i partigiani. I partigiani stavano combattendo la loro lotta, non la lotta del passato, degli antifascisti del confino. Avevano scoperto la democrazia, la dignità. I dirigenti comunisti avevano un’altra storia. Menconi fu capace dello scambio e dell’ascolto. A Parma arrivò nel giugno 1944. Dopo il feroce rastrellamento di luglio e la sconfitta delle zone libere occorreva l’unificazione delle forze partigiane.

Ferruccio Parri (archivio fotografico Anpi nazionale)

Il tema che si poneva a Parma era quello dell’unità dei comunisti con gli autonomi/cattolici. A Carrara, in un altro contesto, lo stesso tema Menconi l’aveva affrontato con gli azionisti e gli anarchici, che a Parma quasi non c’erano. Menconi fu tra coloro che contribuirono all’unità in terra emiliana: nel Cumer, nel Comando Nord Emilia, nel Comando Unico parmense. Da membro del Triumvirato insurrezionale del partito emiliano. A Parma Menconi era “Aldo Renzi”. Per Amendola, Ispettore del partito in Emilia, restò sempre “Musoduro”. Il primo agosto gli fu affidato il Comando di Piazza. Si occupava dei Gap e delle Sap. La prima missione in montagna la fece alla fine di luglio. Era Comandante di Piazza, saltuariamente in montagna. Come il 17 ottobre 1944. Anche alla fine della sua vita, dimostrò amore per gli uomini e vivissima umanità. Scrisse Savani: “Un’altra raffica colpì Menconi al fianco sinistro. Retrocedette barcollando: ‘Sono colpito, aiutami!’. Savani lo trascinò all’interno. Mentre continuavano le raffiche contro la porta d’ingresso, altre investirono le finestre. Un attimo dopo Menconi cadde sul pavimento ordinando: ‘Salvati!’” (24). Questa è la storia di Gino Menconi. Una vecchia storia? Sì, ma vale la pena raccontarla ancora. Come quella di Giacomo di Crollalanza, di Giuseppe Picedi Benettini, dei tre ragazzi della guardia. Tanto più oggi che si cerca di rileggere il passato senza alcun rispetto per questa Storia.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Vale la pena ricordare che un tempo ci fu una generazione ribelle capace di risollevare la Patria, trascinata nel fango da Benito Mussolini e dai suoi miti guerrieri. E forse dal ricordo nascerà anche la riconoscenza per quei carcerati, confinati, resistenti alla macchia, decisi a combattere con ogni mezzo il terrore nazifascista per riprendersi la libertà e restituire dignità al Paese che nel 1922 aveva regalato il potere al fascismo. La loro eredità è viva più che mai: anche se sono scomparse le forze politiche antifasciste che diedero vita alla Resistenza e alla Costituzione, ci restano – e non è poco – l’antifascismo e la Costituzione. Cioè le idee morali e le norme giuridiche che costituiscono il fondamento del nostro Stato.

Albertina Soliani: Non rassegnatevi, il mondo può essere cambiato

Bosco di Corniglio, commemorazione dell’80° dell’eccidio. L’intervento della presidente dell’Istituto Cervi e vicepresidente nazionale Anpi, Albertina Soliani (foto Giorgio Pagano)

Lo ha spiegato con parole bellissime, concludendo la manifestazione a Bosco di Corniglio del 20 ottobre 2024, Albertina Soliani, vicepresidente nazionale dell’Anpi e presidente dell’Istituto Cervi: “Questa è la Resistenza, questa è la moralità della Resistenza: l’umanità al posto della disumanità, il cambiamento della storia dominata dalle dittature, il riscatto dell’umanità dalla vergogna e dall’orrore del nazifascismo, della Shoah, della violenza, della guerra, della menzogna, della propaganda. Ha riscattato l’Italia dalla vergogna storica del fascismo: e oggi? È così difficile dichiararsi antifascisti? E che altro mai potremmo noi essere?

Chi non ha questo sentimento, il sentimento civile che anima le istituzioni repubblicane, non può rappresentare il popolo italiano, non può guidare l’Italia. La sfida di ottant’anni fa, in condizioni diverse, è la stessa di oggi. Tra democrazia e autoritarismo, tra pace e guerra, tra il diritto e la violenza. È la sfida del nostro presente: quando le democrazie sono incerte e fragili, insidiate dall’autoritarismo, dai pochi che pretendono di comandare sui molti. Con la finanza, gli armamenti, la comunicazione. Il mondo è globale, l’antifascismo è globale. Mai come oggi tutto si tiene, dal Myanmar all’Africa, agli Usa passando per l’Europa, dall’Ucraina a Gaza al Libano. La profezia di Isaia, a 2500 anni, entra nel nostro secolo con l’imperativo della pace. La pace senza condizioni, perché quel che accade è umanamente intollerabile. Non era questo il sogno della Resistenza, della democrazia che doveva nascere. Non era questa l’Italia che la Costituzione scriveva. Non era questa l’Europa che sognavano nel carcere di Ventotene. Un’Europa che oggi si abbandona alle destre nazifasciste, che si chiude sui confini, che deporta i migranti oltre i confini. Ottant’anni dopo dobbiamo guardare in faccia la notte che stiamo attraversando, come disse Giuseppe Dossetti nel 1994: ‘Dobbiamo saper riconoscere la notte per notte’. Scegliendo, come allora, di resistere.

Il mondo sognato dai partigiani è ancora tutto davanti a noi. Quel mondo lo cercano le nuove generazioni: raccontiamoglielo, e ascoltiamo il loro sogno. È lo stesso. Cercano fiducia nel futuro, una terra salvata nella sua vita e nella sua bellezza, cercano valori di umanità, di fratellanza universale. Quel sogno è scritto nella Costituzione, è il suo canto. È questo il canto di oggi? C’è qualcosa che non torna se nessuno del governo oggi frequenta i luoghi di quella memoria. Vuol dire che abbiamo un problema, il problema della coerenza, della fedeltà alla Repubblica democratica e antifascista, conquistata così a caro prezzo. C’è da riprendere quel filo, con coraggio, con fiducia.

Il giorno della Liberazione di Parma. Dal sito “Resistenza mAPPe”

Come fecero Arta, Poe, Nardo in quei giorni di dolore quando tutto sembrava finito. Non si arresero, riannodarono il filo e il 25 aprile 1945, il giorno più luminoso del Novecento, condussero i partigiani a sfilare nella città di Parma tra il popolo festante. Riprendiamo il loro spirito, la loro moralità, il loro amore per la vita e per il popolo. Con il loro slancio, credevano che avrebbero cambiato il mondo. Fare memoria è questo: tenerli vivi con noi. È questo il loro messaggio oggi: non rassegnatevi, non siate stanchi, indifferenti, il mondo può essere cambiato. Cambiatelo. Se è notte, tenete accesa la luce. Adesso tocca a voi”.

Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal ’97 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, ultimo suo libro
“Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto”, Edizioni ETS, 2024


NOTE

(1) Primo Savani, Antifascismo e guerra di liberazione a Parma. Cronache dei tempi, Guanda, Parma 1972, p. 154.
(2) Claudio Pavone, La Resistenza in Italia: alcuni nodi interpretativi, in Ricerche di storia politica, 2002, n. 1, pp. 35-36.
(3) Primo Savani, op. cit., p. 163.
(4) Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2012. Nell’edizione 2022 si vedano le pp. 187-188 e la p. 235.
(5) Franco Franchini, Ettore Bonati, Uno dei tanti, Associazione Partigaini Cristiani, Carpena, Sarzana (SP), 1994, pp. 141-142. Coincide sostanzialmente con quella di Franchini la testimonianza precedente di un altro sopravvissuto, Primo Savani “Mauri” (op. cit., pp. 155-158). Savani scrive, a proposito di chi fece compiere ai tedeschi i giri viziosi, di “un carbonaio” (p. 156) e non di “mulattieri”; e, sul numero dei partigiani presenti, scrive “15 persone”, non 14 (p. 157). Leonardo Tarantini, in La resistenza armata nel parmense. Organizzazione e attività operativa, Istituto Storico della Resistenza, Parma, 1978, scrive anch’egli di “un carbonaio” e di “una quindicina di uomini” (p. 181).
(6) Primo Savani, op. cit., p. 163.
(7) Ivi, pp. 195-196.
(8) Achille Pellizzari, Oggi… 23 novembre, Società Editrice Universale, Genova, 1946, dedica.
(9) Leonardo Tarantini precisa che l’evasione avvenne il 13 maggio 144 (op. cit., p. 127), in occasione di quella che fu senza dubbio la più grave delle incursioni aeree sul Parmense svolte dagli Alleati.
(10) Primo Savani, op. cit., pp. 161-162.
(11) La citazione è tratta dall’esergo di Giacomo Ferrari scelto da Dante Gorreri in Parma ‘43. Il popolo in armi per conquistarsi la libertà, ANPI, Grafiche Step, Parma 1975.
(12) Franco Franchini, op. cit., p. 151.
(13) Antonio Bernieri, Gino Menconi nella rivoluzione italiana, Società Editrice Apuana, Carrara 1978. Il libro riporta nella copertina l’affresco di Armando Pizzinato Eccidio di Bosco di Corniglio, a Palazzo della Provincia a Parma.
(14) Ivi, p. 53.
(15) Testimonianza di Arturo Colombi all’autore, ivi, p. 85.
(16) Lettera di Gino Menconi al padre del 14 settembre 1931, ivi, p. 111.
(17) Eugenio Reale, Gino Menconi, in Rinascita, nn. 7-8, luglio-agosto 1945. Il testo, senza firma, è conservato anche in AISRPR, Archivio post ‘45, Caduti, b. 11.
(18) Giorgio Amendola, Gino Menconi: un comunista italiano – discorso pronunciato a Carrara il 18 ottobre 1964, in Id., Comunismo, antifascismo, Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 24.
(19) Si veda, per esempio: Sulla moralità della Resistenza. Conversazione con Claudio Pavone condotta da Daniele Borioli e Roberto Botta, in Quaderno di storia contemporanea, 1991.
(20) Lettera di Gino Menconi al padre del 28 gennaio 1932, in Antonio Bernieri, op. cit., p. 125.
(21) Ivi, p. 168.
(22) Ivi, p. 169.
(23) Ivi, p. 171.(24) Primo Savani, op. cit., p. 156.