Nella Slovenia occidentale al di là delle Alpi friulane c’è un itinerario didattico di grande impatto emotivo: l’Ospedale Partigiano Franja [1]. Si trova nella Gola di Pasice, vicino Cerkno, in località Dolenji Novaki. Ora è diventato monumento nazionale e museo. Nel 2014 ha ottenuto il marchio del Patrimonio Europeo [2] e dal 2000 è incluso nell’elenco dei luoghi candidati a Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. È un ospedale segreto. Per evitare la cattura, i partigiani feriti non potevano andare negli ospedali regolari, sorsero così numerosi ospedali illegali nascosti.
La costruzione del Franja ebbe inizio subito dopo l’8 settembre 1943. Prima di allora i feriti li curava il dott. Viktor Volčjak, partigiano sloveno, nella fattoria di Janez Peternelj, un contadino attivista antifascista, a Podnjivič. Poiché era troppo pericoloso, il proprietario decise di mostrare al dottore il percorso della Gola di Pasice.
È un cammino difficile e pieno di ostacoli: sul fondo corre il torrente Čerinščica e a un certo punto ci sono tante piccole cascate. Era il luogo ideale per trasferirvi i partigiani feriti: in una baracca ben mimetizzata sarebbero stati al sicuro. Per superare le cascate furono costruiti dei ponticelli provvisori di legno. Il primo porta fino alle scale scavate nella roccia e funziona come un ponte levatoio.
A quella baracca se ne sarebbero aggiunte altre tredici. Le baracche venivano prefabbricate a Cerkno con il legname dei boschi del luogo, trasportate sul posto di notte, anche a spalla, e assemblate. Erano in molti a occuparsi dell’ospedale, che fu operativo dal 23 dicembre 1943 al 5 maggio 1945. Fra i medici c’era un dottore italiano, Antonio Ciccarelli.
Il Franja era ben equipaggiato (fornito di strumenti chirurgici, materiale farmaceutico e viveri), ben organizzato e amministrato. Perfettamente funzionante e difeso [3], accoglieva anche gli abitanti dei luoghi vicini. Gente che, senza appartenere alle formazioni combattenti, aiutando i partigiani in tutti i modi possibili, si opponeva ai nazifascisti con un’efficace resistenza. Quel complesso segreto e quasi inaccessibile di baracche era il risultato della volontà e del lavoro di un’intera comunità. «Tutto ciò che successe nella stretta gola di Pasice, costruzioni, demolizioni, lavori di recupero, non nacque da una sola mente e non fu realizzato da un solo paio di mani. Tutti vi presero parte» ricorda il dott. Volčjak [4].
Al Franja, che era l’ospedale più grande, facevano capo molti altri più piccoli i cui responsabili, medici e sanitari, erano sempre in contatto col Franja in quanto sede centrale. Ce n’erano oltre 120 sparsi per il territorio [5]. Nell’ospedale centrale si organizzava la rete dei contatti; ci si coordinava per il recupero dei feriti, trattenendo in sede quelli più gravi (circa 600) e distribuendo gli altri nei dipartimenti distaccati; ci si consultava per la chirurgia, per la diagnostica e per le terapie; ci si rivolgeva per l’approvvigionamento di materiale sanitario e di cibo. Tutto avveniva in segretezza e con la massima discrezione. Le sentinelle erano sempre di guardia, c’erano informatori e corrieri e soprattutto c’era la complicità silenziosa della gente. I tedeschi, per quanto sapessero dell’esistenza del Franja, non riuscirono mai a scoprirlo, nonostante le ricognizioni e i bombardamenti aerei.
Il movimento partigiano di Liberazione sloveno era particolarmente attento al soccorso e alla cura dei feriti. Per ogni azione di combattimento c’era sempre un ospedale da campo [6]. Il personale sanitario interveniva per raccogliere i feriti, prestar loro le prime cure più urgenti e per tirarli fuori dal terreno della battaglia perché non cadessero nelle mani del nemico, destinati così a morte sicura [7].
Combattevano questi medici, certo, ma mettevano a rischio la propria vita per salvare chi non era più in grado di farlo e per salvare, con loro, anche sé stessi. Una volta fuori dal combattimento li trasportavano negli “ospedali”: baracche di appoggio nascoste. Spesso facevano da ospedale gli anfratti nascosti fra le rocce e nelle gole, e i fossati dove ci si riparava dalla vista e dal fuoco nemico e ci si inzuppava di pioggia e di fango, oppure si affondava nella neve. Se vicino c’era una stalla o un deposito, i feriti venivano portati e soccorsi lì. A volte si trasformava in ospedale una stanza nella casa di qualcuno disposto ad aiutare. Gente generosa nell’ospitare e coraggiosa nel rischiare.
Gli ospedali al seguito delle formazioni combattenti partigiane erano realizzati alla meglio: qualche medico, qualche infermiere anche improvvisato (facevano da infermieri perfino i feriti più autonomi), pochi strumenti chirurgici, del materiale sanitario e del cognac che fungeva da anestetico per le medicazioni e gli interventi più seri, amputazioni comprese.
Il riconoscimento dell’ospedale partigiano Franja quale luogo di eccezionale valore storico e umano va esteso di fatto a tutti gli ospedali segreti collegati al Franja. E, meglio ancora, a tutta quell’attività ospedaliera, indispensabile, faticosa, rischiosa, che ebbe luogo in quello scenario di guerra e di Resistenza, in quel tempo drammatico. Per non dimenticare e per proporre come esempio ai più giovani la generosità di tanta umanità che allora prese posizione contro la disumanità.
Nelle tante missioni, il partigiano medico combattente dott. Antonio Ciccarelli si occupò soprattutto di questa attività ospedaliera. La sua storia personale, durante quell’ultimo scorcio di guerra, sta tutta lì. Per ricostruirla, a partire dai pochi documenti disponibili e dalle ancor più rare testimonianze, occorre fare uno sforzo di immaginazione, che però non è fantasia né, tanto meno, è invenzione.
Il dott. Ciccarelli non ha mai tenuto un diario di guerra, né ha lasciato delle memorie. La sua indole riservata, schiva e modesta, è racchiusa in questa sua frase: «Ho fatto il mio dovere e nient’altro che il mio dovere di uomo e di medico per una causa giusta, per la quale migliaia e migliaia di partigiani hanno fatto olocausto della loro vita» [8]. E a chi lo invitava a scrivere perché i suoi ricordi non andassero smarriti e servissero da riflessione ed esempio per le generazioni future, rispondeva che non stava a lui raccontare. Poteva farlo, semmai, chi avesse ritenuto che c’era qualcosa da raccontare.
La storia partigiana del dott. Ciccarelli inizia l’8 settembre 1943, nelle ore concitate che seguono la comunicazione ufficiale, via radio alle 19:42, della firma dell’armistizio. In realtà la guerra iniziava proprio allora: contro i tedeschi ben insediati nel nostro territorio e contro i fascisti. Nell’arco di una manciata di ore le forze del Reich presenti in Italia da alleate si trasformano in forze nemiche di occupazione. Le direttive di Badoglio, capo di Stato Maggiore dell’Esercito e nuovo capo del governo (Mussolini era caduto il 25 luglio), sono un capolavoro di ambiguità. In mancanza di qualsiasi direttiva, l’esercito cade nel caos; senza una guida (il re è fuggito a Brindisi), il Paese è allo sbando; il nemico è in casa e occupa le nostre strade, i nostri uffici, le nostre caserme. La gente è stremata per la guerra e la fame. Accanto a chi inneggia alla fine del fascismo e alla libertà c’è chi grida al tradimento.
I comandi tedeschi hanno emanato direttive chiarissime per disarmare l’esercito italiano: chi accetta di continuare a combattere a fianco della Germania nazista può conservare le armi; chi non lo fa diventa prigioniero di guerra ed è avviato ai campi di internamento in Germania; per gli ufficiali che oppongono resistenza o si schierano con i partigiani c’è la fucilazione; per i non ufficiali i campi di lavoro, anticamera della morte per stenti.
Quel giorno il dott. Antonio Ciccarelli, ufficiale medico del Regio Esercito del Regno d’Italia, è in servizio presso l’aeroporto di Gorizia. Classe 1914, è nato a Novara ma è domiciliato a Giugliano in Campania, a nord di Napoli. Il padre, Feliciano Ciccarelli, è di Giugliano. È il capostazione della stazione di Arona, a pochi chilometri da Novara. Antonio ha le qualità e la volontà di studiare. La famiglia lo asseconda: fa domanda al Collegio Militare Nunziatella di Napoli e il ragazzo è ammesso nel prestigioso Istituto (1930-1933). Al termine degli studi sceglie di continuare nella carriera militare e diventa tenente di complemento dell’Arma di Fanteria (1938-1940). Intanto studia medicina e chirurgia all’Università Federico II di Napoli, nel 1940 si laurea e ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione di medico-chirurgo.
Nel 1943 il tenente medico S.P.E. del Corpo Sanitario dell’Aeronautica Militare, dott. Ciccarelli, che ha già partecipato a operazioni di guerra sul fronte greco-albanese e albanese-jugoslavo (1940-1941) e nel Mediterraneo (1941-1943), sta servendo la Patria a Gorizia come dirigente del Servizio Sanitario del Centro Reclute di S. Pietro di Gorizia e responsabile del Servizio Sanitario dell’aeroporto. Alle 19:42 dell’8 settembre il dottor Ciccarelli è in aeroporto. È un ufficiale e, stando alle direttive tedesche, per aver salva la vita ha una sola possibilità: collaborare con i tedeschi e con i fascisti della Repubblica di Salò. Non lo fa. Non può: in mente ha impresso lo “schifo” compiuto dalle forze del Reich nelle operazioni di guerra. Uno schifo di cui era stato testimone oculare. Si sottrae alla cattura e fugge.
La sua fuga dall’aeroporto di Gorizia ha dello spettacolare. Se ne va via in fretta e furia con due autoambulanze e dieci persone (tra cui alcuni feriti e degli infermieri). Le ambulanze sono stracariche di attrezzature, materiale sanitario, medicine, cibo e armi. L’intenzione è di unirsi ai partigiani della Divisione Garibaldi del Friuli. Per farlo, deve seguire la colonna di militari che lo precedono con la stessa intenzione e presentarsi ai comandi dell’OF, Osvobodilna Fronta, il trasporto dei feriti lungo il percorso per il Franja, [9] con il quale collaboravano anche unità partigiane italiane e straniere.
A fine 1941 le forze dell’OF erano in svantaggio di 1 a 8 rispetto a quelle tedesche (80.000 militari del Fronte di Liberazione contro 390.000 tedeschi). Gli sloveni combattevano per la difesa della patria, dell’integrità territoriale e della propria identità e cultura, per proteggere la propria gente e per la propria sopravvivenza. I tedeschi rispondevano invece a un dittatore la cui ossessione era fare della Germania una grande potenza imperiale (Großdeutsches Reich) millenaria (Tausendjähriges Reich).
Nella lotta di Resistenza, il Fronte aveva adottato strategie di combattimento efficaci e si era organizzato: i Comitati Territoriali facevano capo a un Comitato Centrale e avevano messo su centri di raccolta di materiali e di armi; erano stati attrezzati rifugi sotterranei; potevano contare su staffette per le comunicazioni e corrieri per il rifornimento e la distribuzione dei materiali. I resistenti, soprattutto giovani, partivano da soli o in piccoli gruppi, arrivavano ai Comitati Territoriali e da lì venivano assegnati alle unità operative armate.
Consapevoli dell’importanza delle comunicazioni, avevano organizzato centri di informazioni e banche dati e avevano creato una tipografia segreta, Slovenjia (ancora funzionante) [10]. Fra il materiale distribuito c’era anche Partizanski Dnevnik (Gazzetta partigiana), il quotidiano partigiano che ospitava firme prestigiose della cultura slovena. La tipografia già allora era “completa, con caratteri di banco, zincografia, sala di impaginazione, archivio, magazzino carta e inchiostro, armeria per i difensori in caso di necessità, cucina, mensa, dormitorio, dinamo autonoma… redazione” [11].
I tedeschi non riuscirono mai a scoprirla perché si trovava “in una gola inaccessibile, non visibile da nessuna parte protetta da pareti rocciose e da alberi d’alto fusto… a poca distanza dal greto di un torrente dove, provenienti da Milano e da Gorizia, e portate a spalla sul posto, giunsero due macchine piane per stampare” [12].
Il dott. Ciccarelli sapeva sia dell’esistenza delle forze partigiane slovene, sia della loro organizzazione. Soprattutto, in cuor suo, ne condivideva i valori.
Due giorni dopo la fuga con le ambulanze e il loro prezioso carico il dott. Ciccarelli incontra a Vogersko Alexander-Peter Gala, medico partigiano sloveno dell’esercito del Fronte di Liberazione, che è responsabile sanitario e ha il compito di organizzare gli ospedali da campo. Il dott. Gala racconta l’incontro con il dott. Ciccarelli nel suo diario di guerra e annota che, a differenza di altri soldati italiani, provò istintiva fiducia in quell’ufficiale medico arrivato in coda alla colonna dei militari che passavano di là per unirsi ai partigiani italiani in Friuli.
“… Aveva una bella uniforme estiva di colore azzurro chiaro. Era fermo davanti all’ambulanza e si guardava intorno con un’espressione dolorosa. Mi sarebbe piaciuto scambiare qualche parola con lui, ma non conoscevo l’italiano. Con l’aiuto di altri che sapevano la lingua gli dissi che i medici e il personale sanitario erano molto necessari. Non rispose nulla. Mi guardava con distacco. Indossavo un’enorme blusa, portavo bombe alla cintola, dovevo suscitargli una ben strana impressione” [13].
I partigiani sloveni avevano ricevuto ordini precisi: i militari italiani potevano passare ma dovevano lasciare le ambulanze e il materiale sanitario di cui c’era grande bisogno. Oppure potevano unirsi ai partigiani sloveni, se avessero voluto.
Il dott. Gala era un giovane medico, con tanta volontà e poca esperienza. Si era laureato due anni prima e aveva fatto il tirocinio fra i partigiani. In quei giorni le file dell’esercito del Fronte di Liberazione si stavano triplicando ma l’organizzazione degli ospedali da campo era ancora all’inizio. Mancava di tutto e soprattutto, in vista degli scontri che prevedibilmente sarebbero stati molto cruenti, c’era bisogno di medici. Il dott. Gala ebbe modo di apprezzare quella sera stessa le qualità e la competenza del dott. Ciccarelli. “Nel pomeriggio tardi, nella calca che si formava sempre al posto di raduno davanti alla chiesa, esplose una bomba… lo scoppio ridusse alcuni uomini a mal partito, con ferite gravissime. Ci furono anche due morti… I feriti vennero portati nella casa più vicina davanti alla quale sostavano le ambulanze con gli italiani… Il Doktor Anton, come lo chiamammo più tardi, si offrì di aiutarci e ordinò ai suoi infermieri di prepararsi: entrò rapidamente in casa per portare ai feriti il primo soccorso. Osservandolo vidi che si muoveva con perizia con l’equipe di infermieri. Ogni cosa veniva affrontata con tale rapidità che ritenni fosse meglio lasciarli fare da soli” [14].
A causa dell’attentato l’OF aveva dato ordine che i feriti potevano essere portati con le ambulanze all’ospedale di Gorizia, ma queste, al ritorno, dovevano essere confiscate per l’esercito partigiano sloveno. “Naturalmente era doveroso chiedere ai militari italiani abili al combattimento se qualcuno desiderasse restare, entrare nell’esercito partigiano come combattente, con gli stessi diritti degli altri combattenti contro il fascismo… Il dott. Antonio decise subito di restare e convinse pure i suoi infermieri. «Le mie autoambulanze, i miei infermieri, io stesso e tutto il materiale di cui sono responsabile d’ora in poi sono a vostra disposizione» disse il dott. Antonio al dott. Peter [15]. «Scelsi la via della lotta innanzi tutto perché odiavo i tedeschi. E poi perché il mio aiuto era necessario ai partigiani», afferma il dott. Ciccarelli in una intervista a Giacomo Scotti, scrittore e storico della resistenza. “Il dott. Ciccarelli – spiega lo storico – scelse per compagni i partigiani sloveni perché combattevano ormai da tre anni ed erano l’unica forza ben organizzata nel movimento resistenziale in quell’epoca” [16].
Doktor Anton lo chiamavano i partigiani che erano stati con lui e con lui avevano combattuto e coloro che lui aveva curato e che avevano avuto salva la vita (scomparsi ormai quasi tutti). In Slovenia lo chiamano ancora così i figli e i nipoti che hanno raccolto i ricordi di quella generazione. Il “Dottore con la barbetta” lo chiamava la gente di cui, di volta in volta nei luoghi di missione, il Doktor Anton diventava una sorta di medico condotto [17].
Il compito di medico combattente era seguire nelle azioni di guerra le formazioni partigiane a cui era stato assegnato e metter su gli ospedali da campo per i feriti e per gli interventi più urgenti. Nella sua promozione a capitano per meriti di guerra si legge: «Ufficiale medico in un Aeroporto, sfuggito nel settembre 1943 alla cattura da parte dei tedeschi, si arruolava nelle formazioni partigiane portando con sé due ambulanze e cospicua quantità di materiale sanitario e di viveri sottratti al nemico. Assunta la direzione del servizio sanitario di una Divisione di assalto, organizzava il servizio stesso e costituiva posti di medicazione ed ospedali da campo, prodigandosi incessantemente nella cura e nello sgombero dei malati e dei feriti. Durante un attacco a un ospedaletto, assumeva il Comando degli uomini di guardia e con intensa azione di fuoco teneva impegnato il nemico, coprendo l’esodo di oltre 60 feriti gravi e, solo dopo che tutti erano stati messi in salvo, si ritirava dal combattimento. Bella figura di organizzatore provetto e di combattente valoroso» (zona del Carso settembre 1943 – aprile 1945), (Ministero della Difesa Aeronautica, Foglio d’Ordini N. 16, 1° Giugno 1949).
Numerose sono le attestazioni che lo riguardano e ne descrivono le azioni. Particolarmente importante è il diario del dottor Alexander-Peter Gala [18] con il quale il dott. Ciccarelli lavorò a lungo e di cui divenne grande amico.
Nello Stato di Servizio Partigiano e Note caratteristiche [19] sono elencati i suoi incarichi, le qualifiche, le azioni e gli spostamenti nelle zone di combattimento, al seguito dell’esercito del Maresciallo Tito, nella 30ª e 31ª Divisione slovena e nel IX Corpo d’Armata. L’elenco è asciutto ma è dettagliato e fa il resoconto di tutta la sua attività di partigiano medico combattente. Vi si legge che passò sette mesi, dal 10 settembre 1943 al 31 marzo 1944, nella 30ª e 31ª Divisione slovena dell’esercito del Maresciallo Tito in azioni di combattimento nelle regioni a est e a nord di Gorizia: Nova Gorica, Idria, Aidussina, Tolmin, Koper. Nella lista, che certamente non è esaustiva, ci sono 20 località. Nei successivi dieci mesi (dal 1° aprile 1944 al 19 gennaio 1945) viene spostato nella Gorenjska ed è nominato direttore di tre degli ospedali [20] del IX Corpo d’armata sloveno: Odredna, Pokliuka e Š. Stol. Con la consueta sintesi, c’è l’elenco delle sei “azioni combattive” a cui prese parte in questo periodo e c’è la proposta del Comando del IX Corpo d’armata sloveno della sua nomina a Maggiore Medico (1° luglio 1944).
Queste due scarne paginette fanno luce sulla ricchezza e sulla intensità delle sue esperienze. Il documento non concede nulla alla narrazione, delinea però un tracciato preciso sul quale occorre indagare più a fondo per farne il tessuto del racconto puntuale di una esperienza umana personale e collettiva da non dimenticare. Un’impresa che richiede il tempo e la pazienza della ricerca e della elaborazione. Impresa doverosa, però.
Per assolvere il suo compito il dottor Ciccarelli deve combattere. Però, oltre che contro il nemico, sui monti, nei boschi e nelle gole, egli deve combattere anche contro l’acqua e il fango, il ghiaccio e la neve. E contro il tempo, per salvare vite umane.
In quel teatro di guerra i partigiani medici avevano nella natura un alleato prezioso perché le alte montagne, con le loro fiancate e le cime di pietra, e le valli profonde, strette e anguste, percorse da torrenti e disseminate di cascate, offrivano ripari sicuri per i feriti. In battaglia i bombardamenti aerei e i mitragliamenti a terra provocavano molti feriti: nell’immediato ci si occupava di loro negli ospedali da campo [21]. Spesso, con i tedeschi che incalzavano, occorreva muovere in fretta l’ospedale in luoghi più riparati e sicuri. La fuga di un intero ospedale però non è cosa facile: il dottor Ciccarelli dirigeva e coordinava. Scotti cita nel suo lavoro [22] ampi passi dalle memorie del dottor Peter. Il dottore sloveno ricorda le difficoltà e la concitazione degli spostamenti degli ospedali nei momenti del pericolo (drammatico quello dell’ospedale Vogersko-Montevecchio, da Vogersko a Črniče e poi a Vrtovin, passando per il monte Golako). Parla della precarietà delle condizioni degli uomini, della fatica e del freddo. Racconta la paura, le incertezze, le preoccupazioni e l’affanno di dover prendere in fretta le decisioni giuste. Nel leggere, si rimane coinvolti e sembra di assistere a un film d’azione di guerra. Ma non sono sequenze di un film. È vita vissuta.
Dall’8 settembre 1943 fino a gennaio 1945 il dottor Ciccarelli trascorre sedici mesi di straordinario impegno fra i partigiani della Slovenia. Il suo tempo è pieno: battaglie e fughe; fatica e lavoro: medicazioni, suture, operazioni chirurgiche, amputazioni. E poi combattere, proteggere e salvare vite. Sfuggire al nemico e attraversare luoghi impervi per raggiungere rifugi nascosti, con il carico dolente dei feriti portati anche in spalla. Organizzare, guidare, aiutare. I momenti di pausa e di relativa serenità lontano dal pericolo sono dedicati ai malati, ad aiutare i compagni partigiani e alla leggerezza: per stemperare la tensione, magari con poesie, musica, recite, disegni, battute, giornalini. Non c’era il tempo né la possibilità di far arrivare notizie alla famiglia lontana e in ansia. Inoltre, braccati come erano dai tedeschi, sarebbe stato molto pericoloso per l’ospedale e anche per la famiglia.
Il dottor Ciccarelli ha lavorato in équipe, su un territorio vasto e difficile, con altri medici partigiani, i dottori Volcjak e Peter Gala e le dottoresse Franja Bojc Bidovec e Pavla Jerina-Lah (i quali hanno lasciato delle memorie scritte) e ha vissuto con i suoi instancabili infermieri: Alfredo Festa, italiano di Benevento e Giuseppe Costanzo, la sua ombra, eroe sconosciuto e commovente che era partito in autoambulanza con lui e subito dopo la guerra è morto per il logorio delle estreme fatiche sopportate. Oltre ai feriti in battaglia, ovunque si fosse trovato a causa dei combattimenti, si è anche occupato dei civili malati e infortunati. A Silvo, bambino di sette anni, per salvarlo, aveva dovuto amputare una mano che stava andando in cancrena.
Nel 1945 il dottor Ciccarelli si unisce ai partigiani italiani. Dal 20 gennaio fino al 23 giugno, su sua richiesta, è trasferito al seguito dei partigiani della Divisione d’assalto Garibaldi “Natisone”, con l’incarico di Capo Ufficio Sanità. Le zone operative si moltiplicano: quattro a febbraio, dodici ad aprile, a maggio è a Lubiana e a Trieste. Il 1° luglio è nominato Capo Ufficio Sanità del Comando Gruppo Divisioni Garibaldi del Friuli.
Il documento chiude con le sue note caratteristiche: “Di ottime qualità fisiche e morali, resistentissimo alle fatiche e ai disagi, di carattere fermo e deciso, disciplinato e corretto, ottimo organizzatore, combattente valoroso, possiede spiccatissime attitudini militari. Possiede ottima cultura generale e ottima preparazione professionale. Ha assolto lodevolmente le sue funzioni dimostrando rara capacità e prodigandosi in modo ammirevole. Per le qualità dimostrate nella lotta si ritiene meritevole di rivestire il grado di Tenente Colonnello Medico nella Regia Aeronautica” (Corpo Volontari della Libertà, Comando Gruppo Divisioni Garibaldi del Friuli – Copia di stato di servizio partigiano e note caratteristiche, seconda pagina).
A luglio la guerra è finita davvero. Gli eventi che seguiranno sono storia degli ultimi tre quarti di secolo. In quegli anni di guerra e di orrori era maturato il Manifesto di Ventotene, con l’idea di garantire agli Stati d’Europa una pace durevole attraverso la loro unificazione in una entità sovranazionale di tipo federale. L’idea si è concretizzata nell’Unione Europea. L’Europa ha assicurato 75 anni di pace, ma è un’entità che ancora non vede la sua piena attuazione perché l’ideale del Manifesto non è una pace qualsiasi: è una pace giusta. E la pace giusta non è mai senza libertà, senza diritti e senza uguaglianza. E non è mai definitiva. Occorre difenderla quando e dove c’è; conquistarla dove non c’è e riconquistarla tutte le volte che viene a mancare.
Con fatica e coraggio e generosità. Il dottor Ciccarelli e i partigiani lo hanno fatto tre quarti di secolo fa. Ora sta a noi, partigiani di adesso, riconquistare e difendere gli stessi valori.
Maria Mezzina, PhD, Anpi Giugliano in Campania
[1] La denominazione completa è S.V.P.B.-F. L’acronimo S.V.P.B., che sta per Slovenska Vojaška Partizanska Bolnišnica (Ospedale Partigiano Militare Sloveno), compare nella intestazione dei documenti dell’epoca. “Franja” è il nome della dott.ssa Franja Bojc Bidovec, che lo ha amministrato più a lungo.
[2] Per l’istituzione del Marchio del Patrimonio Europeo si rinvia alla Decisione N. 1194/2011/EU del Parlamento Europeo e del Consiglio. Con il riconoscimento del Marchio, che è volto a valorizzare i luoghi del patrimonio culturale storicamente importanti per la cultura europea, si vuole rafforzare il senso di appartenenza all’UE soprattutto tra i giovani, facendo perno sui valori comunitari – umanità, solidarietà, tolleranza, unità – del dialogo interculturale e della pace promossi attraverso la presenza di attività didattiche di qualità. Il Marchio del patrimonio europeo assegnato all’ospedale partigiano Franja indica che il luogo è tra quelli più importanti della storia e della cultura europea e che Franja, nel suo contesto storico e di umanità, è esempio di valori da coltivare, da proporre e da emulare. L’ospedale Franja fa parte di un programma speciale chiamato “Educazione per la pace”.
[3] Quanto alla segretezza, per evitare di essere scoperti, al Franja come negli altri ospedali segreti, si prendevano tutte le possibili precauzioni. I feriti vi erano portati bendati e quasi sempre di notte: https://www.pb-franja.si/en/explore-franja/franja-partisan-hospital-1943-1945/
[4] https://www.pb-franja.si/it/incontra-franja/franja-tra-gli-anni-1943-e-1945/
[5] Si tratta di dipartimenti più piccoli in varie località, da Cerkljanski Vrh a Jelovica, che dopo la guerra sono stati smantellati.
[6] Le formazioni comuniste partigiane slovene erano organizzate secondo il modello militare che prevede una stretta gerarchia: il comando generale, le divisioni, le brigate, i battaglioni, le compagnie, le squadre, i gruppi di azione patriottica. Tutti dovevano avere un servizio sanitario al seguito: il cosiddetto ospedale da campo o “ospedaletto”. I dati ufficiali sugli interventi effettuati per il salvataggio e la cura dei feriti, però, vanno considerati in difetto perché è probabile che non sempre si riuscissero a fare rapporti dettagliati.
[7] Gli occupanti nazifascisti non riconoscevano ai partigiani lo status di esercito regolare e uccidevano senza pietà anche feriti e malati.
[8] Giacomo Scotti, 2006, Tre storie partigiane – Dalla Macedonia alle Alpi, dappertutto italiani, Ed. Kappa Vu, Resistenza storica, p. 13.
[9] Il movimento partigiano sloveno Osvobodilna Fronta (OF), la cui denominazione completa è Osvobodilna Fronta Slovenskega Naroda (Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno), nacque il 26 aprile 1941 in seguito al bombardamento di Belgrado avvenuto il 6 aprile. Nei piani di Hitler c’era la riduzione della Jugoslavia a una sorta di schiavitù cancellandone cultura, lingua e identità. Il 25 marzo il governo jugoslavo filotedesco firmò un trattato di adesione al cosiddetto “Patto d’Acciaio”. Il paese si ribellò: il popolo scese in piazza e il 27 marzo gli ufficiali dell’aviazione deposero il governo con un colpo di stato, ordinarono la mobilitazione e ruppero l’alleanza con l’Asse. Per rappresaglia Hitler dette ordine all’aviazione tedesca di bombardare Belgrado (Operazione Castigo). Ci furono 5.000 vittime. Il 17 aprile la Jugoslavia firmò la resa e venne occupata e smembrata. Cominciarono allora a espandersi sacche di ribellione organizzata formata dai comunisti di Tito, dal partito popolare cattolico e da altre formazioni di resistenza. In seguito il Fronte dovette affrontare, oltre alle forze dell’Asse, anche gli attacchi interni delle destre nazionaliste (Cetnici) e razziste (Ustascia) che in opposizione ideologica ai comunisti (predominanti nel Fronte) si allearono con i nazisti.
[10] Luciano Marcolini Provenza, Anpi Cividade del Friuli, Da territori di guerra a terre di pace, Patria Indipendente, n. 125, 9 giugno 2022.
[11] Italo Soncini, La tipografia-museo e l’ospedale sulle montagne tra Idria e Cerkno. Il Piccolo, Trieste, 4 luglio 1979.
[12] Ibidem.
[13] Giacomo Scotti, op. cit., p. 22. Da rilevare che le fonti di Scotti sono i protagonisti della sua narrazione. Le citazioni contenute nel libro appartengono al libro delle memorie di guerra del dott. Alexander Gala-Peter.
[14] G. Scotti, op. cit. pp 22, 23.
[15] Ibidem, pp 23, 24.
[16] Ibidem p. 16.
[17] A Nova Gorica l’Associazione Invalidi di Guerra della città ha voluto ricordare con un bel busto la figura del Doktor Anton e l’affetto e la stima che seppe suscitare nella popolazione.
[18] Alexander Gala-Peter, 1972, Partizanski zdravnik, Ed. Partizanska knjiga, Lubiana.
[19] Documento dattiloscritto del “Corpo Volontari della Libertà – Comando Gruppo Divisioni Garibaldi del Friuli”, firmato a Udine il 24 luglio 1945 dal C.S.M. Div. Garib. Friuli, Capitano Bruno-Nestore De Gavardo, dal Comandante L. Zocchi (nome di battaglia “Ninci”), dal Comandante del Nucleo Presidiario Aeroporto di Capodichino (Napoli) e dal Commissario di guerra Mario Lizzero (nome di battaglia “Andrea”), e in seguito (1° marzo 1947) a Napoli dal Comandante Basurto.
[20] Per ospedale occorre intendere una o un complesso di baracche isolate e nascoste sparse sul territorio dove venivano portati i feriti per sottrarli ai pericoli del combattimento e per le medicazioni.
[21] Chiamati anche ospedaletti, si allestivano direttamente sul terreno del combattimento. I sanitari operavano lì, in attesa di qualche pausa per trasferire i feriti, con grande pericolo per sé stessi e per loro, nelle postazioni nascoste più sicure (ospedali), per le medicazioni e gli interventi chirurgici più importanti.
[22] G. Scotti, op. cit., pp 30 e sg.; Dr. Alexander Gala-Peter, Op.cit.
Pubblicato mercoledì 6 Settembre 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/il-doktor-anton-medico-italiano-e-partigiano-in-slovenia/