Quando nell’Italia liberale i ragazzini imparavano a leggere, scrivere, far di conto e amare la Patria, il modello della cittadinanza era costruito sulle barriere di genere, ceto e nazionalità, in una biografia della nazione a uso dei sudditi. Poi la scuola diventò lo strumento dello Stato etico che dal “suddito” intendeva estrarre il “fascista”. Dopo la guerra, però, bisognava trasformare i sudditi in cittadini, “un miracolo che solo la scuola può compiere” (Calamandrei).
Benché l’Assemblea costituente nel 1947 avesse votato un ordine del giorno di Aldo Moro che chiedeva per la Costituzione “un adeguato posto nel quadro didattico nella scuola di ogni ordine e grado”, nelle superiori fu ritenuta sufficiente una sommaria ripulitura dalle impronte fasciste, nelle elementari si stabilì che l’educazione avesse “come suo fondamento e coronamento l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica”.
Era dunque necessario un rapporto nuovo fra scuola e democrazia. Nel 1958 lo stesso Moro, ministro della Pubblica istruzione, introdusse nelle scuole secondarie l’educazione civica con “un costante riferimento alla Costituzione della Repubblica nei cui principi fondamentali si esprimono i valori morali che integrano la trama spirituale della nostra civile convivenza”. Il dettato costituzionale era, in teoria, lo sfondo per tutte le materie, ma in pratica fu creata una disciplina specifica con due ore mensili, inclusa nella storia i cui programmi si fermavano al 1918. Evitando il nodo scottante della storia recente, la nuova materia non trovò l’anima e la forza di una pedagogia efficace.
Ci fu quindi una battaglia culturale, e nel 1960 i programmi dell’ultimo anno, che partivano dal primo Ottocento, inclusero la Resistenza e l’età presente, ma in moltissimi casi il limite del 1918 restò invalicato e l’educazione civica fu un compito assolto – se fu assolto – in modo formale e sbrigativo. C’era un’altra, più grossa difficoltà per l’educazione a una cittadinanza vera, aperta, serena. Il viaggio degli italiani verso la democrazia era avvenuto con un “noi” profondamente diviso, come osservava Pietro Scoppola, e non esisteva nel nostro Paese una “sintesi repubblicana” su cui fondare la cittadinanza. Poiché la Costituzione ha una matrice antifascista, e la parola d’ordine era “tenere la scuola lontana dalla politica”, in moltissimi casi si preferì il silenzio.
Il blocco fu forzato nel lungo Sessantotto, quando molte scuole italiane si aprirono a una nuova attenzione al presente, ma l’educazione civica non cambiò. Poiché è impossibile risolvere i problemi se non si considera che la scuola è formativa per i saperi che trasmette ma soprattutto per “come fa” a trasmetterli, intorno al nocciolo dell’educazione civica in diverse scuole negli anni 80-90 si sperimentarono percorsi attivi di cittadinanza affrontando temi di attualità: le differenze e le pari opportunità, le culture e i loro rapporti, la legalità, la pace, la gestione creativa dei conflitti, lo sviluppo sostenibile, l’ambiente e il patrimonio culturale.
Era la “stagione dei progetti”, e per metterli a norma il ministero lanciò nel 1990 un “Progetto generale di educazione alla salute”, che diventò “Progetto Giovani ’92” poi “Progetto Ragazzi 2000” per connettere al futuro lo star bene individuale (l’educazione fisica, sanitaria e alimentare, sessuale, l’orientamento, la lotta contro la dispersione scolastica). Quando nel 1998 in Europa si costituì la Task Force sull’Olocausto, l’Italia varò il progetto “Il 900. I giovani e la memoria”. In quell’anno nacque anche l’educazione “al patrimonio culturale”, e con le autonomie scolastiche la progettualità formativa si diffuse a vari livelli, stato, regioni, enti territoriali, singole scuole. I confini dell’educazione civica esplodevano in molti frammenti.
Nel 1996 con il “Decreto Berlinguer” l’ultimo anno dei cicli fu riservato allo studio del Novecento per dare la necessaria cornice storica al discorso sulla cittadinanza italiana ed europea, ma la scuola non era un blocco omogeneo e l’equilibrio fra gli obblighi curricolari e l’impegno nelle innovazioni era sostenuto, con esiti più o meno felici, da una quota ampia di volontariato docente. Perché si passasse dal volontariato disorganico al sistema occorreva lo sforzo di una grande riforma.
Il ministro Berlinguer nel 1996 nominò una vasta commissione. Si iniziò da una domanda semplicissima che generò infinite discussioni: perché si mandano i ragazzi a scuola? per imparare che cosa? I lavori durarono fino al 2001 con il ministro De Mauro, il punto di partenza era quello dell’identità personale, l’orizzonte un mondo sempre più complesso; fra loro, le vie dei saperi e delle competenze in cui si poteva e si doveva rivitalizzare l’educazione civica “per una cittadinanza critica e responsabile”. Il processo era giunto alla stesura dei curricula per la scuola di base quando cambiò il governo.
Il ministero Moratti azzerò tutto riuscendo a produrre per la scuola di base una legge delega per l’“educazione ai principi fondamentali della convivenza civile”, aggettivo preferito a “democratica”. Era articolata in sei “educazioni”: alla cittadinanza, alla sicurezza stradale, all’ambiente, alla salute, all’alimentazione, all’affettività e sessualità. L’educazione alla cittadinanza entrava nella “convivenza civile” al pari dell’educazione stradale, ma i problemi maggiori erano altri. Le sei “educazioni” erano molto debolmente collegate alle materie esistenti, così il successivo ministero Fioroni riconsiderò il piano generale, però cadde prima di completare l’opera, sostituito dal ministero Gelmini.
Il percorso ricominciò daccapo e dal 2010-2011 fu ristabilita, come ai tempi di Moro, una disciplina specifica con trentatré ore annue, voto distinto, per tutti gli ordini e gradi di scuola. Quelle trentatrè ore, però, furono inserite nell’insegnamento della storia che nei licei, per esempio, ne prevedeva sessantasei, e poiché in un’ora soltanto alla settimana nessun insegnante di storia avrebbe potuto svolgere un programma minimamente dignitoso, l’educazione civica diventò una disciplina-fantasma.
In quest’ultimo decennio le ambiguità dell’educazione alla cittadinanza come disciplina si sono accentuate, mentre il rapporto verticale fra i cittadini e lo Stato è stato sopraffatto da quello orizzontale fra gli individui e le loro appartenenze, generando la relatività dei diritti umani e il deperimento del Patto costituzionale. Si sentono gli echi di un passato combattuto e vinto, rivendicati come legittimi “nel nome della democrazia”. Si torna così, in questi giorni, a parlare di educazione civica per tutto l’arco scolastico, su tre assi: Costituzione, sviluppo sostenibile, cittadinanza digitale.
Trentatré ore annue, divise fra tutte le materie con una trasversalità tutta da inventare e il Patto costituzionale che ancora attende di essere conosciuto universalmente come fondamento della convivenza democratica e dello Stato in cui viviamo.
Pubblicato martedì 28 Luglio 2020
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/scuola-e-cittadinanza-il-lungo-calvario/