Pubblichiamo un inedito assoluto: un appunto di Alessandro Natta, ritrovato fra le carte della Presidente Carla Nespolo. È una riflessione di grande attualità sull’Italia dell’8 settembre e dei mesi successivi e una critica senza appello alle sottovalutazioni ed alle denigrazioni della Resistenza. Si tratta di fogli dattiloscritti con correzioni a mano, vergati presumibilmente nell’estate del 1996. Nel testo segnaliamo in una nota di redazione l’omissione di un’unica, breve frase illeggibile. Alessandro Natta (Oneglia, 7 gennaio 1918, Oneglia il 23 maggio 2001) è stato parlamentare e segretario del Pci dal 1984 al 1988. Antifascista, fu chiamato alle armi nel 1941 sull’Egeo. Dopo l’armistizio prese parte alla lotta contro i tedeschi, rimanendo ferito. Imprigionato a Rodi, rifiutò ogni collaborazione con tedeschi e repubblichini e fu deportato in Germania. Attivo nell’organizzazione della Resistenza tra gli ufficiali dei lager di Kustrin, Sandhbostel e Wietzendorf, raccoglierà i ricordi di questa sua esperienza e di quella degli altri internati italiani nei lager del III Reich, nel libro “L’altra Resistenza”.
Il 25 aprile del ’45 io ero in Germania, ma già libero, in un paesino – Bergen – che era in mezzo tra il lager militare di Wietzendorf e quello politico di Belsen, nome tremendo di oppressione e di morte come Auschwitz! In Germania ero stato deportato dall’isola di Rodi dove nel settembre del ’43 ero stato gravemente ferito nei combattimenti contro i tedeschi che si erano immediatamente arresi dopo l’armistizio.
Ho voluto ricordare, e me ne scuso, questo fatto personale perché mi premeva mettere subito in luce un caso un caso di enorme importanza, e cioè nel momento stesso della resa e della dissoluzione dell’esercito italiano emerge una volontà e una capacità dei nostri soldati di non piegarsi, di non farsi umiliare, di schierarsi contro i tedeschi. Cefalonia è il simbolo luminoso ma in tutto l’Egeo, in Grecia, nei Balcani, in Francia, in Italia sono numerosi i casi di resistenza, sacrificio, rifiuto di obbedire, prima ai tedeschi e subito dopo ai fascisti, tornati alla luce con Mussolini e la repubblica di Salò.
Il fatto straordinario, inaudito, non è la caduta della struttura, dei valori, dei punti di riferimento conseguente alla catastrofe militare e politica, non è la ricerca della salvezza individuale, il tutti a casa, il miracolo sono questi giorni di ripresa che immediatamente si rivelano, è la gente che aiuta i militari e i soldati che tornano a combattere.
Per capire la complessità e la varietà del moto che si sviluppò dall’8 settembre in poi bisogna vedere bene l’intreccio tra il dato della spontaneità e quello della direzione. Ad alimentare, a far crescere la resistenza vi sono infatti elementi diversi e spinte spontanee molto individuali, molto sofferte, necessità imperiose da una parte, e dall’altra gli impulsi, gli interventi organizzati e ordinatori che vengono dalle forze politiche antifasciste, che sono riemerse e tornate in campo dopo il 25 luglio.
Non era fatale, e non era scontato, che dal fondo dell’abisso emergesse una nuova energia, una fiducia, una capacità di sacrificio che accanto agli antifascisti di vecchia data, si schierassero in armi migliaia e migliaia di giovani che avevano aperti gli occhi sotto le armi, e i giovanissimi delle più diverse provenienze sociali e politiche di differenti livelli culturali: operai, contadini, studenti. Non era facile, e non era scontato l’amalgamarsi e il disciplinarsi di quei giovani in vere e proprie formazioni militari, e poi il comporsi di quelle diverse bande e divisioni – le garibaldine e le G.L. soprattutto, ma pure le autonome, le monarchiche in un esercito sostanzialmente unitario – come era nei propositi e nelle ambizioni di Parri, di Longo e del vertice politico del CLN dell’Alta Italia, e come fu possibile per la spinta decisiva che venne dalla svolta di Salerno e per l’intelligenza e la determinazione di Togliatti.
Dai primi incerti episodi – che ho ricordato – a quelli conclusivi dell’insurrezione, quando le formazioni partigiane si muovono davvero come un esercito e possono precedere gli alleati nella liberazione della nostra terra – è ben chiaro il cammino enorme e faticoso che si è compiuto per dare unità di indirizzo politico e di direzione militare alla lotta per l’indipendenza e la libertà d’Italia. Non abbiamo bisogno di celebrare, ma di ricordare sì, con fermezza e ostinazione.
Non bisogna permettere che abbiano la meglio i tentativi di disinformazione e di mistificazione che negli ultimi tempi da parte diversa si sono compiuti per fare credere che la resistenza, in Italia e in Europa, sia stato un episodio insignificante, di scarso peso militare e politico, un fatto di minoranza, o peggio ancora che i combattenti dell’una e dell’altra parte e le idee, i progetti che li animavano fossero da mettere quasi sullo stesso piano. Si tratta di tendenze storiografiche e politiche che hanno mirato alla normalizzazione, alla rimozione, al metterci una pietra sopra, e in esse, dispiace che si è fatto coinvolgere anche un ex presidente della Repubblica.
Attenti ai trucchi, alle trappole, e alla faciloneria.
Certo, se si pensa all’entità degli eserciti che si sono affrontati – tra il ’39 e il ’45 – nel mondo, in Europa, in Italia è chiaro che le divisioni partigiane, quelle del CIL (Corpo Italiano di Liberazione. Il CIL fu un’unità militare organizzata nella primavera del 1944 dal Regno del Sud. Ndr), e sul fronte contrapposto l’esercito di Salò, non rappresentano un numero rilevante di combattenti, ma quella lotta fu durissima, con un alto prezzo di sangue, e con un rilievo militare innegabile. Sotto il profilo politico, poi, non si può dimenticare che da quella lotta, dai princìpi e finalità che la animarono e ispirarono è risorta l’Italia, è nata la Repubblica, si sono poste le fondamenta della democrazia italiana, è scaturito il progetto e programma della Costituzione, i cui valori – di libertà, di eguaglianza, di giustizia, di pace – bisogna ancora oggi difendere accanitamente. Si può certo modificare, correggere l’ordinamento, l’organizzazione dello Stato, le strutture e il carattere delle Camere, del governo, dell’amministrazione pubblica, ma attenti non lasciate manomettere, stravolgere, oscurare i grandi princìpi dello Stato democratico.
Bisogna ribadire la permanente validità della forma repubblicana dello Stato, dell’unità e indivisibilità della Repubblica.
Bisogna ricordare che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, e che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’amministrazione politica, economica e sociale del Paese”, come dice l’articolo 3 della Costituzione.
Qualche storico sostiene che la resistenza, la lotta partigiana sono stati fatti di minoranza; mentre l’elemento più consistente e significativo in quel tempo tragico tra il ’43 e il ’45 sarebbe stato l’attesismo, la zona grigia.
Ma quali sciocchezze! Mai nella storia c’è stato un conflitto globale e totale come la seconda guerra mondiale. Mai nelle vicende italiane si è vista una leva di volontari, una mobilitazione di energie, una partecipazione di classi e ceti diversi così imponenti come nella lotta di liberazione. E basta pensare al fenomeno inedito della presenza tra i volontari di tanti giovani delle vallate e delle montagne, al sostegno generoso, straordinario e determinante dei contadini, alla comprensione e all’aiuto fino al sacrificio di sacerdoti e religiosi.
La verità è che anche dopo l’8 settembre, dopo una sconfitta tremenda, milioni di italiani sono stati in campo, vero è da parti diverse della barricata, i fascisti con i tedeschi, gli antifascisti con i partigiani.
Ed anche per l’attendismo, occorre intendere bene il senso, il carattere, del termine. Esso si è manifestato … (la frase aggiunta a penna è incomprensibile. Ndr).
In verità ci sono state forme diverse di partecipazione, di sostegno, di consenso. Gli indifferenti a tutto, quelli sì, sono stati davvero una minoranza.
Si è discusso molto, anche in occasione del 50°, ed è giusto, del carattere della lotta di liberazione. Si è parlato del confluire, dell’intrecciarsi in essa di tre guerre: una, che si può definire patriottica contro un nemico straniero (i tedeschi) per recuperare l’indipendenza e l’unità della nostra nazione, una che è stata di liberazione da un nemico interno, dal fascismo (e nazismo) e che si è definita con un termine contrastato, civile, e una che si è definita di classe, sociale, di affermazione di una nuova società attraverso la conquista del potere. Badate bisogna intendere bene, senza schematizzare, il senso di questa classificazione.
Anche a me è accaduto di polemizzare con Bobbio per l’uso della categoria “guerra di classe”. E lui stesso riconobbe che in effetti questa guerra non si è combattuta. E allora? Si vuol dire che alla base della lotta c’era una forte carica e rivendicazione di cambiamento nel senso della giustizia, dell’eguaglianza; c’era una speranza di socialismo che certo ispirava comunisti, socialisti, azionisti. Questo è senz’altro vero. E tuttavia è ben difficile trovare un episodio di lotta partigiana in cui il nemico sia non un tedesco, non un fascista, ma un padrone, un ricco! La verità è che la resistenza volle essere una rivoluzione democratica, in cui dominanti erano lo spirito patriottico, l’impegno antifascista unitario e l’aspirazione alla libertà.
Io non ho difficoltà nemmeno ad usare il termine di “guerra civile”, poiché in effetti in campo si schierarono italiani contro italiani (europei contro europei) e si trattò di un conflitto che esasperava quella mancanza e rifiuto delle regole che aveva segnato tutta la guerra dal ’39 al ’45 senza più distinzione fra eserciti e popolazioni civili, con bombardamenti nelle città, deportazioni, rappresaglie, disconoscimenti dello status e della vita dei prigionieri.
Ma attenti, questa definizione si può usare quando sia del tutto chiara, sicura la distinzione e il discrimine tra una parte e l’altra, tra il fascismo e l’antifascismo, tra una causa sbagliata e una causa giusta.
Non bisogna assolutamente lasciar confondere il richiamo alla pietà verso i morti, il rispetto per i caduti in buona fede, l’appello al perdono; le amnistie le concedemmo subito! Ma nel ’48 in Parlamento ci trovammo di fronte Almirante! Non bisogna confondere la pietas e la comprensione per i vinti con i giudizi morali e politici, e con le verità storiche.
Certo, il fascismo non fu un malanimo importato dall’estero o piovuto dalle stelle. Si affermò in Italia nella crisi dello Stato liberale, si fece forte di molti aiuti e complicità – della monarchia, della Chiesa, del padronato. La spuntò anche per gli errori e le divisioni del movimento operaio e di quello cattolico popolare. Ma detto questo, bisogna anche dire la verità sul fascismo che fu strazio e vilipendio della libertà, fu esaltazione tronfia e volgare della forza e della violenza, fu predicazione e pratica sanguinosa della guerra, fu ubriacatura nazionalistica e colonialista fino all’abbiezione del razzismo e fino a condurre l’Italia alla rovina.
Su questo giudizio storico di condanna non ci possono essere incertezze, dubbi, esitazioni. Bisogna essere rigorosi, severi anche con noi stessi.
Bisogna non dimenticare, bisogna conoscere, studiare il nostro passato, tutto. Vedete, non c’è una trasmissione “naturale” di generazione in generazione del patrimonio storico, e la verità si trasmette e resiste se è alimentata e difesa, se diventa cultura, costume civile e morale di un popolo, altrimenti può trovar credito lo storico cialtrone e fazioso che dichiara che lo sterminio, l’Olocausto degli ebrei è una invenzione, e può confondere le idee il politico furbastro che, se non ripete più che Mussolini è stato il più grande statista del secolo, lascia intendere che in definitiva non era del tutto male.
La coscienza critica del passato è essenziale.
Diffidate di chi invita a mettere una pietra sopra. I popoli che non ricordano sono destinati a ripetere anche gli errori, anche gli orrori.
E noi invece vogliamo andare avanti e nel segno e nel senso della giustizia, della solidarietà, dell’eguaglianza, per uno sviluppo ordinato e sicuro della nostra società, con un governo stabile, efficiente, corretto come ora il voto del 21 aprile (1996. Il 18 maggio si formò il primo governo Prodi. Ndr) ha reso possibile.
Vogliamo e possiamo andare avanti, grazie anche al sacrificio dei combattenti e dei caduti della resistenza antifascista e al lavoro e alle lotte che con tenacia e onestà abbiamo compiuto in cinquant’anni.
Vedete, gli artefici e i protagonisti della lotta di Liberazione sono ormai quasi scomparsi: generazioni come la mia, allora giovani, sono ora al tramonto, sulla scena politica le forze che allora furono determinanti – Pci, Psi, Pd’A, Dc – sono state logorate, dissolte e trasformate. Ma le idee, gli ideali di quella vicenda storica reggono bene, sono vivi, vitali e la loro permanente validità è il premio per la fatica, i sacrifici, il sangue di allora.
Alessandro Natta (Oneglia, 7 gennaio 1918, Oneglia il 23 maggio 2001) è stato parlamentare e segretario del PCI dal 1984 al 1988. Antifascista, è chiamato alle armi nel 1941 sull’Egeo. Dopo l’armistizio prende parte alla lotta contro i tedeschi, rimanendo ferito. Imprigionato a Rodi, rifiuta ogni collaborazione con tedeschi e repubblichini ed è deportato in Germania. Attivo nell’organizzazione della Resistenza tra gli ufficiali dei lager di Kustrin, Sandhbostel e Wietzendorf, raccoglierà i ricordi di questa sua esperienza e di quella degli altri internati italiani nei lager del III Reich, nel libro“L’altra Resistenza”.
Pubblicato giovedì 17 Settembre 2020
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/riflessioni-sull8-settembre-e-la-resistenza/