Dopo l’omicidio di Willy e il ripetersi sempre più frequente di gravi episodi efferati, abbiamo chiesto a intellettuali, scrittori ed esperti di aiutarci a capire cosa muove e perché sia divenuta un fenomeno quasi “ordinario” la violenza giovanile. Qualche giorno fa vi abbiamo proposto una riflessione di Carlo Greppi. Ora vi invitiamo a leggere il contributo della professoressa Anna Oliverio Ferraris, psicoterapeuta e psicologa dello sviluppo. È autrice di numerosi libri tra cui per le edizioni Bollati Boringhieri: il recentissimo “Famiglia”; “Psicologia della paura”; “Più forti delle avversità. Individui e organizzazioni resilienti”.
Qualche anno fa, proprio a Colleferro, dove è avvenuto il pestaggio e l’omicidio di Willy, il padre di un bambino di seconda elementare, che era stato indicato dai compagni di scuola come quello che aveva spinto con violenza per le scale un proprio compagno mandandolo al pronto soccorso, si era presentato in classe all’improvviso furioso nei confronti dei piccoli alunni, urlando, in presenza dell’insegnante, che li avrebbe presi uno per uno per il collo e li avrebbe lanciati dalla finestra.
Poiché l’insegnante e la scuola non seppero rassicurarli, i bambini, preda della paura, per alcuni giorni non si presentarono in classe.
Che cosa ci dice questo episodio? Ci dice varie cose, tra cui che uno dei fattori all’origine della violenza nei bambini e nei ragazzi è la presenza nel loro ambiente di vita di modelli violenti. E poiché la violenza è un tratto multifattoriale, possono entrare in gioco, nel rafforzarla e nello scatenarla, anche altri fattori come l’impulsività e l’iperattività individuali, traumi precoci, un clima educativo trascurante e/o maltrattante, l’esclusione e l’emarginazione sociale, la mancanza di interessi, il bisogno di imporsi e affermarsi e persino la noia.
Un padre violento o che esalta la violenza è un modello di riferimento forte per i figli, anche quando sono essi stessi vittime di violenze familiari. Non succede a tutti, perché le variabili in gioco sono diverse, ma l’esito più semplice e diretto della violenza su un bambino è che questi diventi a sua volta violento. Ecco cosa scriveva in “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” l’autrice Christiane F. sul suo bisogno di inferire sui più piccoli negli anni della fanciullezza come conseguenza delle botte che suo padre riversava su sua madre, su di lei e su sua sorella: “Il mio più ardente desiderio era di diventare presto grande come mio padre, di avere un vero potere sugli altri. Nel frattempo mettevo alla prova il potere che avevo. Io e le mie amiche acchiappavamo un bambino, lo chiudevamo in una cabina dell’ascensore e premevamo tutti i bottoni. Alla fine lui se la faceva sotto nell’ascensore”.
Oggi, anche chi non ha adulti o fratelli picchiatori o alcolizzati in casa, può assistere facilmente e quotidianamente a scene di violenza, a volte fin dai primissimi anni di vita sugli schermi televisivi, del computer e del tablet. Violenze riprese dal mondo reale e violenze costruite negli studio per intrattenere e divertire il pubblico degli spettatori.
Nel mondo reale ci sono gli omicidi, i bombardamenti, gli attentati, le sparatorie, ma anche le esecuzioni capitali, le lapidazioni, gli accoltellamenti. Nella fiction le scene di violenza hanno spesso al centro un “eroe” che se in alcuni spettatori suscita paura e disgusto in altri invece suscita eccitazione, entusiasmo, approvazione e identificazione.
Il motivo per cui viene fatto abuso di violenza in molti film, serie televisive e videogiochi fino a indulgere in dettagli cruenti, descrizioni di torture e di intensa sofferenza fisica e psicologica per le vittime, è che la violenza eccita e genera una forma di piacere. Anche la paura produce piacere, così come altre emozioni. Ecco perché non mi sento di condividere la lettura che alcuni danno di serial criminali e altri spettacoli in cui sono inserite scene particolarmente crudeli, sadiche ed eccitanti: ossia, che tali scene sarebbero una forma di denuncia nei confronti di bande criminali e società violente.
Questo può funzionare per gli spettatori maturi, non per coloro che – per immaturità o per la giovane età – nell’eroe negativo, nell’aggressore che impone il suo volere con la forza l’inganno e il terrore, vedono comunque il vincente, il trionfatore, e in esso sono indotti a identificarsi, soprattutto se hanno motivi di risentimento e di rivalsa dovuti a maltrattamenti, frustrazioni, bullismo o altro. Sono numerosi gli studi scientifici che hanno dimostrato come la visione di scene violente sia, in bambini e in adolescenti, più eccitante che catartica. Senza contare che alcuni filmati insegnano, concretamente, come aggredire, immobilizzare, sopraffare e uccidere.
Questa pioggia di immagini violente fin dall’infanzia può dare la sensazione che la violenza sia un modo lecito e autorizzato per risolvere i conflitti, stabilire la propria superiorità, farsi rispettare e temere (in fondo – pensano i giovani spettatori – i produttori di quei filmati sono gli adulti).
Se poi a questi convincimenti si unisce il disprezzo per il più debole e il razzismo ecco che la violenza viene considerata un tipo di interazione abituale che non genera pentimenti o sensi di colpa.
Dal punto di vista educativo serve distinguere aggressività da violenza. I due termini non sono affatto intercambiabili ma indicano due diversi momenti e condizioni. Si può essere aggressivi e violenti, ma si può essere soltanto aggressivi e non violenti. L’individuo aggressivo e non violento è una persona che controlla i propri impulsi e ricorre alla violenza solo se costretto, in casi estremi, per autodifesa.
Non sempre e non necessariamente l’aggressività si trasforma in violenza. C’è una aggressività sana – o grinta – che consente di reagire, di fronteggiare le minacce, di fare le cose, di essere vivi e partecipi. C’è anche una collera etica, giustificata dagli eventi e necessaria di fronte alle ingiustizie. Ci si può arrabbiare perché si odia ma anche perché si ama, per ostilità ma anche per amicizia.
Gli impulsi aggressivi possono essere incanalati – dall’educazione, dalla cultura, dagli affetti, dallo sport – verso esiti costruttivi e utili all’individuo, al gruppo e alla società. Invece di abbandonare bambini e ragazzi ai propri impulsi si tratta di dar loro dei validi strumenti – cognitivi, emotivi, culturali – per riconoscerli, controllarli e amministrarli in modo costruttivo. Si tratta anche di renderli partecipi alla vita sociale e responsabili. Ritengo che sia compito di un Paese democratico pianificare e incoraggiare forme di servizio civile nel corso dell’adolescenza e della pre-adolescenza.
Anna Oliverio Ferraris, psicoterapeuta, docente emerita universitaria, autrice di saggi e volumi, collabora con le principali testate giornalistiche nazionali
Pubblicato sabato 10 Ottobre 2020
Stampato il 22/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/per-un-identikit-della-violenza-giovanile/