Panoramica del campo di Arbe nella piana di Kampor con la bandiera italiana in primo piano

Arbe, in croato, dal 1945 si chiama Rab ed è una delle quattro grandi isole che costellano il golfo del Quarnaro a sud di Fiume (Rijeka). Rab è un’oasi di pace che esprime al meglio la propria vocazione turistica, ma durante la Seconda guerra mondiale conobbe uno dei peggiori crimini contro cittadini sloveni, croati ed ebrei. Nell’arco di tempo fra il luglio 1942 e la fine di agosto del 1943 nella piana di Kampor l’esercito di occupazione italiano costruì un campo di concentramento per civili nel quale trovarono la morte 1.435 persone.

Tale è il numero delle vittime nominativamente accertate, ma vi sono valide ragioni per ritenere che le vittime siano state molte di più. A Rab non vennero eseguite fucilazioni e non c’erano camere a gas con camini fumanti. A Kampor si moriva di fame, per deperimento fisico, per dissenteria, per maltrattamenti e per malattie di ogni genere. La vita nelle tende, sia d’estate che d’inverno, quando la bora gelida non perdona, un giaciglio di paglia sulla terra nuda, poca acqua, latrine rigurgitanti liquame in caso di pioggia: queste furono le cause principali di una così alta mortalità. In poco più di tredici mesi si raggiunse questo tragico primato. Nel campo di Rab, lo ripetiamo, non comandavano i tedeschi, ma i militari dell’esercito italiano mandati da Mussolini a portare la civiltà fascista.

Nessuno venne chiamato a rispondere per questi crimini. Nessuno ha pagato il giusto conto alla giustizia.

Questa storia è ignorata dagli italiani, largamente taciuta dalla stampa e dalla televisione, assolutamente disattesa dai testi scolastici. Bisogna anche dire che mentre per altri crimini di guerra si è dovuto attendere la scoperta dell’armadio della vergogna, qui non c’è nessun armadio da scoprire perché i documenti riguardanti il campo di concentramento di Arbe/Rab sono pubblicamente reperibili da anni negli archivi dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano a Roma e si possono trovare in pubblicazioni di autorevoli storici e ricercatori italiani, sloveni e croati disponibili nelle biblioteche degli istituti storici e negli archivi pubblici.

Basta volerlo. Dunque, nessun alibi, nessuna giustificazione. Meglio chiamare le cose con il loro nome: un colpevole silenzio su una pagina dolorosa della nostra storia. Silenzio al quale l’Italia, a partire dalle massime espressioni istituzionali ed antifasciste, dovrebbe porre rimedio, perché ancora oggi manca un doveroso riconoscimento ed un segno di amore per le vittime del campo di internamento di Rab. C’è ancora da dire che i luoghi dove ogni anno giustamente si ricordano le vittime delle foibe non sono tanto lontani da Rab: un’ora d’auto o poco più ma finora è mancata la volontà politica di affrontare questo problema.

Ma anche noi partigiani, cittadini democratici ed antifascisti dovremmo concorrere a rompere la cortina di silenzio che tuttora avvolge questa tragica storia tutta italiana. Si può, si deve fare!

Ripercorriamo la storia di Arbe e dell’occupazione italiana della Jugoslavia.

Campo di Arbe, i bambini giocano nel fango

Slovenia addio

Il 7 luglio 1941 in una riunione svoltasi a Lubjana il Generale Mario Roatta, comandante dell’XI Corpo di Armata dell’Esercito Italiano, comunicò agli ufficiali che era stata disposta la costruzione di un campo per internati civili per 6.000 persone, prevalentemente slovene, nell’isola di Arbe in una località chiamata Kampor. Il progetto prevedeva fasi successive fino ad una capienza di 20-25.000 posti. Alla fine del 1942 il progetto venne ridimensionato ad una disponibilità di 10-12.000 persone per ragioni logistiche, soprattutto per le difficoltà di trasporto via mare di uomini e approvvigionamenti.

La comunicazione di Roatta avvenne quando i lavori di apprestamento del “Campo Primo” erano già iniziati da un mese. Vedremo più avanti cosa avvenne ad Arbe dall’anno 1941 in poi. È però necessario considerare i fatti precedenti per meglio comprendere le ragioni della costruzione di numerosi campi per internati civili oltre a quelli di Gonars (Pordenone), Monigo (Treviso), Chiesanova (Padova), Renicci (Arezzo) e tanti altri sparsi per l’Italia e la Dalmazia. Quello di Kampor era il più grande e avrebbe dovuto essere anche assunto come modello, ma la caduta del regime fascista e l’armistizio dell’8 settembre 1943 posero fine a tali progetti. Resta il fatto che quello di Kampor non fu soltanto il campo di concentramento italiano più grande fu anche il più grande cimitero di internati civili.

Bisogna tornare al 6 aprile 1941 quando, dopo due giorni di bombardamenti della Luftwaffe su Belgrado, la Germania e l’Italia invasero il Regno di Jugoslavia, Paese che fino ad allora, benché sottoposto a fortissime pressioni, era rimasto neutrale nella guerra che stava sconvolgendo l’Europa. Non ci addentreremo nei particolari di questa complessa vicenda: sta di fatto che dopo l’aggressione e la resa incondizionata (17 aprile 1941) il Regno di Jugoslavia cessò di esistere e l’intero territorio venne smembrato. La Germania occupò la Serbia, insediò un governo fantoccio a Belgrado e decretò l’annessione al III Reich delle regioni slovene contigue all’Austria: la Carinzia, la Stiria e l’Alta Carniola. In tal modo la Slovenia venne dimezzata e privata dei suoi territori più ricchi.

L’Italia ebbe la sua parte del bottino di guerra.

Vennero annesse al Regno d’Italia: la parte della Slovenia a sud della Sava con l’inclusione di territori croati nei quali era prevalente popolazione di etnia slovena; l’entroterra della costiera dalmata a sud di Zara (Zara apparteneva già all’Italia dal 1920) con le città di Sebenico (Sibenic), Spalato (Split), Ragusa (Dubrovnik) fino alle Bocche di Cattaro (Kotor). L’Italia ottenne anche il governatorato del Montenegro e di parte della Bosnia-Erzegovina. I territori nei quali esistevano ricche miniere di bauxite e di altri minerali preziosi divennero appannaggio dell’alleato tedesco. A Zagabria si costituì lo Stato Indipendente di Croazia alla cui testa venne imposto il capo del movimento nazionalista e fascista “ustascia” Ante Pavelić, un personaggio che aveva a lungo soggiornato in Italia sotto l’ala protettrice di Mussolini dal quale aveva ottenuto cospicui finanziamenti. Qui si ebbe anche la farsesca nomina del Re di Croazia nella persona di Ajmone di Savoia, il quale non mise mai piede a Zagabria. La Croazia entrò quindi nell’orbita politica italiana ma continuò a mantenere forti legami con la Germania nazista.

Le isole di Arbe e Cherso vennero annesse all’Italia nel maggio del 1941 in base ad un accordo fra Mussolini e Pavelić.

Arbe. Tende per seimila persone; per ogni stagione, d’estate e d’inverno, con il sole e con la pioggia, con la bora e il gelo. Si noti la scia di liquame tra le tende

Il 12 aprile 1941, contravvenendo alle convenzioni internazionali, con Regio decreto venne istituita la Provincia italiana di Lubjana e nel contempo vennero annessi al Regno d’Italia anche i territori croati della costa adriatica precedentemente indicati. A Lubjana venne nominato un Alto Commissario con ampi poteri nella persona del Generale Francesco Saverio Grazioli e l’apparato amministrativo del capoluogo e delle altre sedi periferiche (Comuni) venne fascistizzato con l’imposizione di Podestà italiani affiancati da notabili locali simpatizzanti del fascismo.

Si cambiarono nomi a piazze e strade; si diede inizio al bilinguismo e nella vita pubblica divenne d’obbligo l’italiano. Altrettanto obbligatorio fu lo studio della lingua italiana nelle scuole. Venne fondata la “Federazione del Fascio di combattimento della provincia di Lubiana”, con la struttura organizzativa e il rituale del regime, compresi il saluto romano e il saluto al Duce. Nel novembre del 1941 vennero istituiti Tribunali Militari. Quello di Lubjana giudicherà (fino all’8 settembre 1943) 8.000 cittadini sloveni pronunciando 83 condanne a morte, 412 ergastoli e 3.000 condanne inferiori ai 30 anni di reclusione.

I popoli jugoslavi dopo la disfatta, ossia dopo lo sfacelo del loro esercito, presero le armi e iniziarono a combattere gli invasori. Ciò avvenne anche in Slovenia. L’illusione di Mussolini di sottomettere gli sloveni si scontrò ben presto con la dura realtà. La guerra patriottica di liberazione si estese a tutto il territorio e, come ebbe a dichiarare il Generale Mario Roatta, «la popolazione slovena è interamente dalla parte dei ribelli». Un avvenimento che riporta alla mente i rastrellamenti delle SS nei ghetti ebrei di Varsavia e di Roma si ebbe il 23 febbraio 1942 quando l’intero perimetro della città di Lubjana (40 chilometri) venne recintato con filo spinato. Furono dislocati oltre sessanta posti di blocco dotati di mitragliatrici e vennero installate postazioni di fotoelettriche per il controllo notturno. La città fu suddivisa in tredici settori nei quali, giorno dopo giorno, furono passate al setaccio case, cantine e soffitte. Vennero fermate 18.700 persone. 878 furono inviate nel campo di concentramento italiano di Gonars. Subirono la stessa sorte tutti gli ex ufficiali dell’esercito jugoslavo in età inferiore ai sessanta anni. Lubjana in soli 13 mesi subì ben quattro rastrellamenti.

Il 12 marzo 1942 il generale Mario Roatta emanò un documento denominato “Circolare 3C” con il quale diede una svolta in senso ancor più repressivo alla lotta contro il movimento partigiano e contro la popolazione. Vennero puntualmente ordinate le forme di repressione: dagli interrogatori spietati alle fucilazioni, dal sequestro del bestiame e dei prodotti dell’agricoltura all’incendio di case singole e di interi villaggi; dagli arresti alle deportazioni nei campi di internamento italiani che però erano ormai saturi. Di qui nasce la decisione – annunciata quattro mesi dopo – di costruire il campo di concentramento nell’Isola di Arbe-Rab.

Si dovevano attuare tutte le misure per tagliare ai partigiani viveri e luoghi di rifugio nelle case dei contadini e dei centri abitati e «far pesare sul collo delle popolazioni il pugno di ferro della rappresaglia». Più tardi Mussolini, confessando la sua delusione per gli scarsi risultati ottenuti, ebbe a dire: «Occorre massima durezza: sono convinto che al terrorismo dei partigiani si debba rispondere con il ferro e con il fuoco». E il generale Robotti, interpretando alla lettera le parole del Duce, richiamava all’ordine i suoi ufficiali dicendo: «Ogni sloveno in vita deve essere considerato almeno simpatizzante con i partigiani…bisogna dunque mettere da parte ogni falsa pietà, qui si ammazza troppo poco!». Il Duce e i suoi generali ormai erano intrappolati nel “vespaio” da essi stessi cercato e non sapevano come venirne fuori, se non peggiorando la situazione. E la soluzione venne trovata, si fa per dire, nel fare piazza pulita in vaste aree della Slovenia e del fiumano eliminando quanti erano sospettati di parteggiare per i ribelli e portando nei campi di internamento tutti i restanti.

Si disse: 30.000 persone, un decimo della popolazione!

È impressionante come Mussolini e gli alti gradi dell’Esercito Italiano aizzassero gli ufficiali ed i soldati all’odio più selvaggio, all’uccisione anche per semplici sospetti, al disprezzo per quelli che consideravano uomini e donne di una razza inferiore, giustificando in tal modo a priori ogni nefandezza, comprese le torture, le stragi e gli incendi di interi villaggi. Era questa la “civiltà fascista”: il resto sono chiacchiere! Bisogna considerare che molti di questi criminali avevano già fatto scuola di stragismo nella guerra di Abissinia (1935-’36) dove, insieme alle impiccagioni e fucilazioni, si fece abbondante uso del gas iprite, o per domare i ribelli; in Libia, nel campo di concentramento di Giado, nelle montagne del Gebel nella Libia occidentale dove vennero lasciati morire di sete e di stenti 560 ebrei.

Nell’autunno-inverno 1942-’43, in coincidenza con la grande offensiva (Piano Weiss) contro il movimento partigiano, su tutto il territorio jugoslavo venne attuato l’intervento più massiccio e capillare che mise a ferro e fuoco la provincia di Lubjana e ampia parte del territorio fiumano nelle zone del distretto di Cabarsk e nelle alture del Gorski Kotar. La direttiva era questa: «Contadini, lavoratori e uomini validi in genere che vengano trovati in zone abbandonate da ribelli in fuga debbono essere fucilati perché, non potendo essere giustificata la loro presenza, debbono essere considerati sbandati o dispersi».

I partigiani subirono forti perdite ma la maggior parte riuscirono a reagire e a svincolarsi dall’accerchiamento; i morti, soprattutto fra i civili, si contarono a centinaia e centinaia furono le case distrutte ed i villaggi dati alle fiamme. Migliaia di abitanti, quale che fosse la loro attività, vennero incolonnati e trasferiti a Fiume (Rijeka) e agli altri porti di imbarco di Buccari (Bakar) e Porto Re (Kraljevica) per il campo di internamento nell’isola di Arbe-Rab. Ma i generali di Mussolini, quando credevano di avere liquidato la resistenza, si ritrovarono ancora di fronte i partigiani che impiegando la tattica propria della guerriglia non diedero pace agli invasori. Costoro credevano ancora di vincere la guerra e dominare il mondo e non sapevano che, di lì a qualche mese, il Cavalier Mussolini e con esso il regime fascista sarebbero ignobilmente caduti e l’Italia avrebbe firmato l’armistizio con gli Alleati anglo-americani.

Mappa del campo di Arbe. Nella legenda, dall’alto: Comando del campo; Bunker con mitragliatrici; Posti di blocco sulla strada di ingresso e di uscita; Grande faro; Cimitero del campo

Il campo della morte

Torniamo indietro con il racconto.

Terminata la guerra contro il Regno di Jugoslavia e spartito il bottino fra i vincitori, le truppe italiane sbarcarono nell’isola di Arbe che venne ufficialmente annessa al Regno d’Italia soltanto il 18 maggio 1941. Il presidio militare contava da 2.500 a 3.000 soldati. Per consolidare il loro potere gli occupanti costituirono il Commissariato civile, quale organo politico-amministrativo dello Stato italiano, ricorrendo contemporaneamente all’adozione di diverse misure politiche, economiche e propagandistiche per meglio esercitare il controllo sulla popolazione, ma non passò molto tempo che iniziarono a mettere in atto provvedimenti repressivi con arresti e persecuzioni di cittadini contrari al regime di occupazione.

Il 2 giugno 1942 sbarcarono altri 200 soldati italiani che si accamparono nei pressi del porto. Allargata la strada per Kampor con l’impiego di alcune centinaia di abitanti del luogo, nei giorni seguenti iniziarono i lavori per l’insediamento del Campo. Prima operazione fu quella di fare piazza pulita di tutto quello che cresceva sul terreno: vigne, granoturco, ortaggi e quant’altro. Il terreno venne spianato alla meglio senza mezzi meccanici e, come vedremo, si crearono non pochi problemi per chi doveva vivere su quel terreno in parte paludoso. Vennero eliminate anche alcune costruzioni. Rimasero in piedi solo alcune case utilizzate dai militari addetti al campo ed anche un edificio che sarebbe diventato l’ambulatorio-infermeria.

Vennero inoltre costruite alcune strutture di servizio di prima necessità: alcune baracche provvisorie per la ricezione, per la cucina e per altre utilità. I servizi igienici – se vogliamo chiamarli così – furono realizzati con lo scavo di profonde buche sopra le quali vennero collocate di traverso tavole di legno che presto si coprirono di escrementi. L’intimità era inizialmente ottenuta con rami strappati a qualche pianta superstite.

Per l’acqua potabile erano disponibili solo tre rubinetti alimentati da autobotti con una erogazione (scarsa) di tre ore al mattino e tre ore al pomeriggio; erogazione che, in alcuni casi, venne sospesa temporaneamente per “punizione”.

Come da progetto ai margini del campo venne delimitato anche uno spazio per la sepoltura degli internati deceduti; uno spazio insufficiente in quanto si arrivò a mettere anche due o tre salme nella stessa fossa. Attorno al campo, sulle alture, vennero costruite delle postazioni militari dotate di mitragliatrici e un grande faro in grado di illuminare oltre al campo anche tutta l’area circostante della valle. Terminata la recinzione con il filo spinato e la erezione delle torrette di sorveglianza, il campo fu in grado di accogliere i primi internati, ma poiché era stato costruito in tutta fretta e con mezzi inadeguati le difficoltà e le sofferenze furono enormi.

Il primo gruppo composto da 198 persone provenienti da Lubjana giunse sull’isola il 28 luglio 1942 con la nave “Plav” partita da Fiume.

Benché stremati dal lungo viaggio i deportati furono costretti ad erigere le tende da soli. Dai rapporti del Comando dei carabinieri responsabile delle traduzioni risultano essere giunti nel campo almeno 27 trasporti. In una relazione trovata negli uffici del campo dopo la liberazione, sono elencati tutti i singoli arrivi dei deportati.

In totale risultano essere: 9.535 persone (4.958 uomini, 1.296 donne, 1.039 bambini) più 1.026 ebrei per un totale di 10.564 internati.

L’arrivo degli internati al campo di Arbe

Chi erano gli internati

Si è già detto che in maggioranza provenivano dalle province di Lubjana e Fiume (Rijeka) dove più forte ed estesa era la resistenza partigiana. Ma molti provenivano anche da zone soggette ai piani di pulizia etnica da attuarsi indipendentemente dalla presenza in loco di raggruppamenti partigiani. Erano soprattutto contadini, operai, boscaioli, artigiani incappati in qualche rastrellamento; donne e bambini prelevati dalle loro case.

C’erano anche intellettuali, insegnanti, persone colte che durante la detenzione continuavano la loro attività di educatori dei compagni di sventura pur non disponendo di libri e quaderni. Si noti che la caccia agli studenti universitari, ai professori e insegnanti di qualsiasi livello era particolarmente indicata negli ordini di esecuzione dei rastrellamenti.

Nel campo c’erano anche numerosi croati arrestati durante rastrellamenti nei vasti territori e nelle città della Croazia.

Un terzo gruppo, come si è detto, era costituito da ebrei.

Nel campo ogni giorno, mattina e sera, per tutti era d’obbligo assistere all’alzabandiera e all’ammainabandiera con il picchetto militare.

La disciplina, soprattutto nei primi tempi, era molto rigida. Risulta che ci furono casi di persone legate al palo per ore sotto il sole o la pioggia, riduzioni temporanee del cibo, bastonature e colpi sferrati con il calcio del fucile anche per infrazioni lievi. Le sopraffazioni morali erano all’ordine del giorno e facevano parte della vita di ogni giorno. Non tutti i soldati e gli ufficiali si comportavano allo stesso modo: si riconoscevano i più fanatici che, indottrinati dal fascismo, agivano con prepotenza ed arroganza verso gli “slavi” considerati esseri inferiori per razza e cultura, e quelli che avevano compassione e forse anche vergogna per il ruolo infame che erano costretti a svolgere. Questo non si può dire del comandante del campo, il Tenente Colonnello Vincenzo Cuiuli, che era contemporaneamente anche comandante del presidio militare dell’Isola di Arbe.

Questo personaggio, portava sempre con sé un frustino per incutere timore ai detenuti che l’avevano soprannominato “il serpente” per il disprezzo che manifestava verso i prigionieri e per i comportamenti che lo rendevano inviso anche a molti soldati.

Arbe, una madre con il figlio dietro il filo spinato

Le condizioni di vita

Specie per quanti erano sistemati nelle vecchie tende – infestate da ratti, pidocchi, zecche ed altri insetti – furono estremamente penose, contrassegnate dalla fame, dal freddo, dal sovraffollamento e conseguentemente dalle malattie e da una elevata mortalità che colpiva i soggetti più deboli: i vecchi (c’era anche un ultranovantenne!), i bambini e le donne. Nell’autunno del 1942, con l’arrivo del freddo, le condizioni di vita nel campo peggiorarono notevolmente e si moltiplicarono i decessi. Il problema della mancanza fra gli internati di indumenti atti ad affrontare il freddo era emerso in tutta la sua gravità già alla fine dell’estate, considerato che durante i rastrellamenti coloro che erano stati strappati alle loro case o al lavoro nei campi e nei boschi erano coperti con gli abiti da lavoro che indossavano al momento dell’arresto. Durante i temporali le fosse biologiche tracimavano riversando il liquame fetido non solo nel canale di scolo ma fra le tende. La notte del 29 ottobre 1942 sul campo si scatenò l’inferno: la pioggia accompagnata da un vento fortissimo allagò il campo. L’acqua, oltre che dal cielo, scendeva copiosa dai molti rivoli della collina e la strada in pendenza sembrava un fiume.

Moltissime tende vennero invase dalle acque e cedettero per l’impeto della bufera. Come se ciò non bastasse, anche il mare ingrossato entrò nella baia e portò via decine di tende. Tutto questo avvenne nel buio profondo della notte fra grida e lamenti delle persone. Non si è mai saputo quanti siano stati i morti, soprattutto quanti bambini.

Da un bidone della benzina tagliato a metà si distribuiva la brodaglia quotidiana

Il cibo degli internati

Quanto al cibo, le razioni alimentari erano minime e pessime, al disotto delle necessità caloriche dovute per la sopravvivenza. Ancora adesso vediamo fotografie del campo dove uomini e donne con le ciotole in mano che si affollano attorno ad un soldato con un mestolo che distribuisce brodaglia attingendo da un bidone di benzina tagliato a metà. Sull’alimentazione c’è una pagina scritta da un internato che ha vissuto in prima persona la tragedia di Kampor. Si tratta di Franc Potocnik, sloveno, ex ufficiale della marina jugoslava, poi comandante partigiano, che racconta: «Pane se ne riceveva di solito 70-80 grammi al giorno, la quantità non superò mai cento grammi… Nella brodaglia nuotavano alcuni maccheroni oppure qualche grano di riso. Il resto era composto da cappucci, torsoli di verdure, barbabietole puzzolenti o zucche buone solo per i maiali … e invece della carne nel bidone c’era soltanto qualche osso. La carne, se c’era, l’avevano mangiata quelli della cucina o gli ufficiali».

Rubavano, rubavano tutti!

«L’amministrazione del campo era completamente corrotta e, perciò, la quantità del vitto diminuiva in modo disastroso. Ciò che non arrivava ai legittimi destinatari era oggetto di tutte le forme di mercanteggiamento. Così per il denaro: chi riceveva qualche modesta cifra dai parenti veniva regolarmente depredato di metà dell’importo se non dell’importo intero. Lo stesso dicasi per i pacchi inviati dai familiari (quei pochi che avevano questa fortuna) che venivano consegnati con grande ritardo o non consegnati affatto».

Dopo la liberazione del campo se ne trovarono centinaia con i prodotti avariati.

In queste condizioni, le diagnosi dei medici militari del campo, asserivano che le cause della morte erano principalmente dovute a “collasso cardiaco”. Sempre secondo dati ufficiali di fonte italiana, già alla metà di dicembre del 1942, cioè in poco più di cinque mesi, erano deceduti 502 internati; e si doveva ancora affrontare il periodo più duro dell’inverno che avrebbe mietuto ogni giorno decine di vittime, soprattutto fra coloro che erano nelle tende. Si è calcolato che la percentuale dei morti di Kampor sia stata proporzionalmente maggiore di quella del campo di Buckenvald. Il vecchio edificio adibito ad ambulatorio (qualcuno aveva il coraggio di chiamarlo ospedale!) era permanentemente occupato. I malati più gravi già sul punto di morire venivano stipati nello scantinato. Ci fu un momento nel quale, non potendo fare fronte alla drammatica situazione – e anche per evitare possibili epidemie – i medici del campo ottennero di trasferire un consistente numero di ammalati, soprattutto bambini, in alcuni alberghi della città trasformati in ospedali di emergenza.

Molti medici militari italiani si comportarono con umanità nonostante la carenza di prodotti farmaceutici e mezzi sanitari rendesse problematico il loro lavoro, sempre più aggravato dall’aumento delle malattie e soprattutto dai casi di dissenteria. C’era invece chi, fra i generali fascisti, della vita e delle sofferenze degli internati aveva ben altra considerazione. Il generale Gastone Gambara, ricevette una comunicazione dell’Alto Commissario della Provincia di Lubjana Francesco Saverio Grazioli così formulata: «Mi riferiscono che in questi giorni stanno ritornando degli internati malati dai campi di concentramento, specialmente da Arbe. Il 1° Medico Provinciale …ha constatato che tutti, senza eccezioni, mostrano segni del più grave deperimento ed esaurimento e cioè: dimagrimento patologico, completa scomparsa del tessuto grasso nella cavità degli occhi, pressione bassa, atrofia muscolare, gambe gonfie con accumulo di acqua, peggioramento della vista (retinite), incapacità di trattenere il cibo, vomito, diarrea, stipsi, disturbi funzionali e autointossicazione con febbre».

Per nulla preoccupato, il generale rispondeva con una lettera scritta di suo pugno: «È comprensibile e giusto che il campo di concentramento non sia un campo di ingrassamento… – e aggiungeva cinicamente – … una persona ammalata è una persona che ci lascia in pace». Affermazione che poteva anche concludersi così: «se poi muore è anche meglio».

Trasferimenti in campi italiani

Bisogna tenere presente che nell’autunno del 1942 dal campo di Arbe vennero effettuati numerosi trasferimenti verso campi per internati civili situati in Italia, soprattutto a Gonars. Si trattava in generale di persone in cattivo stato di salute e soprattutto donne e bambini, molte delle quali morirono durante il faticoso viaggio oppure dopo qualche tempo raggiunta la destinazione. Per questo, quando si afferma che i morti di Kampor furono assai più che 1.435, si dice cosa vera. Non va poi dimenticato che al momento dell’arresto numerose donne erano in stato di gravidanza. Questo fatto non impedì il loro internamento a Kampor, cosicché un numero imprecisato di bambini nacque nel campo; si sa però che una parte di loro nacque morta e di altri che morirono perché le madri, a causa delle condizioni di debilitazione, non erano in grado di allattarli.

Notizie dai fronti di guerra

All’inizio del 1942 all’interno del Campo si era costituita una cellula del Fronte di Liberazione della Slovenia che teneva contatti con gli antifascisti dell’Isola di Arbe dai quali si avevano notizie sull’andamento della guerra. Qualche notizia filtrava anche da parte dei soldati.

Fu così che si seppe della vittoria sovietica a Stalingrado e dell’offensiva che era in corso contro le Armate germaniche in ritirata.

Dall’Italia si seppe dello sbarco degli anglo-americani in Sicilia e, dopo qualche settimana, si seppe della caduta di Mussolini. Era il 25 luglio 1943. Nella sede del Comando fra gli ufficiali e sottufficiali più ligi agli ordini di Cuiuli si notava un certo nervosismo. Nel complesso però si vide un cambiamento nel comportamento dei soldati e un allentamento delle misure disciplinari con una maggiore disponibilità verso i detenuti. Una nota di cambiamento si vide anche nella somministrazione del cibo con qualche miglioria: più maccheroni e riso, meno torsoli di cavolo e perfino qualche osso in più con un po’ di carne. Tutto ciò faceva ben sperare. Nel campo si era creato un clima di fervente attesa.

E venne l’8 settembre…

Un prigioniero sloveno ripreso nel campo di Arbe dopo la liberazione

La liberazione

Qui cediamo la parola a Franc Potocnik che nel libro-testimonianza Il campo di sterminio fascista nell’Isola di Rab (pubblicato dall’Anpi di Torino nel 1979) così ricorda i giorni della liberazione del campo. «L’8 settembre 1943, di sera, scoppiò improvvisamente una ondata di entusiasmo fra le truppe italiane. I soldati saltavano dalla gioia e gettavano in aria i loro cappelli. Nessuno di noi conosceva le ragioni di tanto entusiasmo ma ben presto si seppe che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati anglo-americani. Di conseguenza, essendo decaduta l’annessione della Slovenia al Regno d’Italia, venivano a decadere anche le decisioni che prevedevano la detenzione dei civili nei campi di internamento. La gioia entrò nelle tende e tutti si chiedevano che cosa sarebbe successo da questo momento. Cessata l’euforia i militari rimasero ai loro posti, anch’essi in attesa degli eventi. I dirigenti del Fronte di Liberazione clandestino si riunirono d’urgenza, consapevoli che quando si crea un vuoto di potere, o qualcosa di simile, può accadere di tutto. Per prima cosa chiesero pertanto a tutti gli internati la massima disciplina: restare nelle tende o nelle baracche soprattutto non prestarsi alle provocazioni che potevano venire dall’infido comandante del campo o da qualcuno dei suoi scherani. Previsione non campata in aria. Dopo la liberazione del campo si è constatato che Cuiuli aveva telegrafato al comando superiore a Fiume chiedendo rinforzi, oppure chiamare i tedeschi ad occupare il campo di concentramento.

Oggi si potrebbe dire che l’uomo era andato fuori di testa, ma conoscendo la perfidia dell’individuo le preoccupazioni dei dirigenti del Fronte erano quanto mai realistiche».

«Il clima di attesa e l’atteggiamento equivoco del comandante del campo, che alle richieste dei rappresentanti degli internati rispondeva in modo evasivo, portarono i dirigenti del Fronte di Liberazione di Kampor alla decisione di promuovere una riunione di tutti gli internati alla quale invitare anche Cuiuli. Il 10 settembre al centro della “Piazza della Fame” fu posto un palco improvvisato per gli oratori (…) gli internati confluirono in massa attorno al palco. Alcuni venivano sorretti dai compagni (…) le donne portavano anche i loro bambini. Dopo la notizia che l’Italia aveva firmato l’armistizio tutti volevano sapere quale sorte li aspettava, quando e come avrebbero lasciato il campo. I membri del Comitato del Fronte di Liberazione di Kampor avevano organizzato la grande riunione, preoccupandosi che non si verificassero incidenti.

Qualcuno notò che anche numerosi soldati italiani si erano uniti alla folla degli internati. Joze Jurancić era già salito sul palco insieme ad altri compagni del Fronte… A un certo punto vedemmo che dalla sede del comando il Tenente Colonnello Cuiuli, veniva verso di noi scortato da un gruppo di ufficiali armati e con l’elmetto in testa. Gli internati fecero ala al loro passaggio senza pronunciare parole o fare gesti. Sarebbe bastato un insulto o un gesto offensivo per provocare una situazione incontrollabile. Il silenzio era totale».

Jurancić ricorda così questo momento: «Quando Cuiuli salì sul palco io lo accolsi alzando il pugno chiuso gridando con quanto fiato avevo in gola “Morte al fascismo!”, al quale fecero eco un gruppo di internati: “Libertà al popolo”. Il comandante non si aspettava quell’accoglienza e, livido in volto, insieme agli ufficiali fece il saluto militare. Era il riconoscimento che il suo potere di comando era finito».

«…Il Tenente Nanni ci chiamò per consegnarci i documenti amministrativi del campo e del denaro di proprietà dei detenuti. (…) Con un gruppo di persone di nostra fiducia stavamo facendo i controlli e rilasciando le ricevute quando entrò l’ufficiale di servizio dicendo che aveva l’incarico di ammainare la bandiera italiana. Gli dicemmo di farlo, ma lui insistette perché ciò avvenisse secondo le regole militari. Concordammo di procedere dopo qualche ora e, al momento convenuto, davanti alla sede del comando del campo erano già schierati un picchetto militare italiano e una pattuglia di internati sloveni, croati ed ebrei con la nostra bandiera ancora ripiegata. Il trombettiere italiano suonò l’ammainabandiera. Tutti ci mettemmo sull’attenti mentre il tricolore scendeva dal pennone. Poi un membro della nostra pattuglia prese la tromba e suonò l’alzabandiera del nostro vessillo con la stella a cinque punte. Anche gli ufficiali italiani e le sentinelle salutarono sull’attenti la nostra bandiera. Fu un momento di grande commozione. Da una parte e dall’altra si vedevano persone con le lacrime agli occhi. La nostra pattuglia invitò quindi gli ufficiali ed i soldati italiani a deporre le armi: ciò che essi fecero abbandonando la sede comando…».

«…Restava il problema del disarmo dei militari italiani, non solo quelli del campo ma anche di quelli dislocati nell’isola, in particolare nel capoluogo di Rab. Non mancarono difficoltà e momenti di tensione, specie con i carabinieri, ma alla fine tutto si risolse per il meglio. Non vi furono atti di vendetta. Solo i militari che in più occasioni si erano distinti in maltrattamenti nei confronti degli internati vennero arrestati per qualche giorno poi furono rilasciati. Vennero invece tenuti in stato di arresto, processati e condannati a morte per i loro crimini di guerra il Ten. Col. Vincenzo Cuiuli e una spia di nome Mohar».

«… Con le armi sequestrate agli italiani, si formò la Brigata partigiana “Rab” della quale insieme agli arbesani fecero parte molti ex internati e anche soldati italiani che avevano capito che il fascismo aveva tradito la loro buonafede. Raggiunta la terraferma la brigata si unì alle forze dell’esercito di liberazione di Tito. Anche i detenuti ebrei costituirono una propria formazione – il “battaglione ebraico” – che si diresse verso Sud per incontrarsi con altri raggruppamenti di analoga fede religiosa».

* * *

Una foto del memoriale di Arbe durante i lavori di costruzione

I soldati italiani, privi di ordini, si dispersero: una parte si imbarcò su alcuni battelli diretti verso nord, forse per raggiungere Fiume o Trieste; altri cercarono la strada per rientrare in Italia con mezzi di fortuna. Si è saputo che gran parte venne intercettata dai tedeschi e finì nei lager in Germania. Vi furono anche quelli che presero la strada dei monti entrando a far parte delle brigate partigiane jugoslave o in quelle italiane “Garibaldi” e “Italia”.

Dopo l’8 settembre 1943 i poteri nell’isola vennero assunti dal Comitato Popolare di Liberazione che aveva fin lì operato nella clandestinità.

I tedeschi presero possesso dell’isola di Arbe soltanto il 19 marzo 1944, ma in base ad un accordo fra i gerarchi tedeschi e quelli croati l’isola fu ceduta allo Stato Indipendente Croato. Il potere partigiano ad Arbe fu nuovamente instaurato il 12 aprile 1945, giorno in cui sull’isola sbarcarono le unità della IV Armata dell’Esercito partigiano di Liberazione.

Degli internati presenti nel campo l’8 settembre 1943 non si hanno notizie precise. Si sa che la gran parte fu trasportata a Fiume con imbarcazioni del Comitato Popolare di Liberazione; altri, i più gravi, vennero temporaneamente assistiti negli alberghi dell’isola.

Quanti siano sopravvissuti è altrettanto difficile dirlo. Dai documenti esistenti si parla genericamente di centinaia di persone decedute in seguito alle sofferenze patite nell’inferno di Kampor.

Nel 1953 nella piana di Kampor era tornato a crescere il granoturco e dove c’era il cimitero del campo venne edificato il grande Memoriale (opera dell’Architetto sloveno Edvard Rawnikar) nel quale sono ricordate le vittime del “campo di internamento per civili più grande e con il maggiore numero di vittime della seconda guerra mondiale”. Un triste primato che, purtroppo, è da attribuire agli italiani.

Non dimentichiamolo.

Giancarlo Grazia

(da Patria Indipendente n. 10 del 28 novembre 2010)


Alcuni dati dal libro di Franc Potocnik, Il campo di sterminio dell’isola di Rab, Anpi Torino, 1979

 25mila gli sloveni deportati e 7mila morti nei diversi campi

Nel periodo aprile 1942-gennaio 1943 l’uccisione di ostaggi superò di quasi tre volte le esecuzioni capitali decise dai tribunali militari.

25.000 sloveni residenti nella “nuova” provincia di Lubjana furono deportati nei campi di internamento situati in territorio italiano, soprattutto a Kampor.

 Bilancio delle vittime slovene in 29 mesi di terrore fascista nei 4.550 km² della Provincia italiana di Lubjana:

Ostaggi civili fucilati                                                                                   1.500

Fucilati sul posto                                                                                        2.500

Deceduti per sevizie                                                                                        84

Torturati e arsi vivi nell’incendio dei villaggi                                         103

Uomini, donne e bambini morti nei campi di concentramento     7.000

Case saccheggiate, bruciate e distrutte                                            12.773

Case gravemente danneggiate                                                            8.850