C’è un’età irripetibile, di cui ovviamente ci si rende conto solo dopo averla superata, che è la gioventù. Ragazze e ragazzi, giovani, giovani uomini e donne. Un’età che comporta una particolare sensibilità e una speciale energia, che supplisce alla minore esperienza. Ricordo il proverbio africano per cui “il giovane cammina più veloce dell’anziano, ma è l’anziano che conosce la strada”. È un’età che in determinate condizioni storiche consente una fecondità creativa speciale; Gioacchino Rossini a 21 anni aveva già rappresentato dieci opere. Chopin scompare a 39 anni, Rimbaud a 37; nel breve tempo della loro vita segnano la storia universale della musica e della letteratura. Carlo Marx aveva 30 anni e Federico Engels 28 quando pubblicano il Manifesto del partito comunista. Mozart era un bambino prodigio e poi, di conseguenza, un giovane prodigio.
La gioventù è però anche l’età della leva. Nei due conflitti mondiali, oltre all’olocausto dei civili, si contarono decine di milioni di militari sterminati, nella grandissima parte giovani. Intere generazioni cancellate per quell’elemento di consapevole follia, di misantropico delirio di onnipotenza che alberga dietro l’idea stessa della guerra. Il parossismo del linguaggio genocida e della sindrome di Erode si rivela nelle parole di Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano: “Stiamo mettendo Gaza sotto assedio completo (…). Stiamo combattendo contro animali umani”. Allo stato delle cose, circa 20mila morti di cui 8mila bambini, e gli altri quasi tutti giovani o giovani uomini. Animali umani…
Oggi in Italia: giovani in estinzione? Il recente rapporto Censis ci dice che nel 2023 i giovani fra i 18 e i 34 anni sono il 17.5% della popolazione, a fronte del 23% del 2003. Non convince la suggestione del governo, un “crescete e moltiplicatevi” fuori tempo massimo. Difficile convincere a moltiplicarsi una coppia di precari, o chi fa il lavoro povero, o comunque chi usufruisce di redditi bassi o medio bassi, in particolare se donna. Il loro presente dissuade dal fare figli. E fa paura anche la prospettiva del futuro, davanti a una crisi economico-sociale del Paese e dell’intera Unione Europea di cui, allo stato delle cose, non si intende minimamente rimuovere le cause. Docet il fermo in officina della locomotiva tedesca (con conseguente stasi di tutti i vagoni continentali).
Sarebbe più logico invertire la tendenza all’emigrazione dei giovani italiani, di cui non si hanno dati precisi, perché oscillano da 377mila ad addirittura 1,3 milioni nel periodo 2011-2021. Perché vanno via? Leggo sul periodico della Federmanager Lombardia che sono disoccupati o non trovano lavoro soddisfacente prevalentemente i giovani, quelli meridionali, le giovani donne: “il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani – anagrafico, territoriale e di genere – li incentiva alla fuga all’estero, anche in periodo di pandemia, attratti da: retribuzioni, prospettive di carriera, contesto di fiducia e di stabilità, welfare, qualità della vita”. C’è in queste parole il programma concreto per il loro ritorno: retribuzioni che corrispondano al dettato costituzionale: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; uno spazio di carriera attraente; fiducia nel futuro supportata da elementi concreti; il grande ritorno del welfare; in sostanza una vita migliore. Un libro dei sogni, fino a quando ci saranno le politiche di questo governo e questo sistema economico.
Non bastano gli alti lai nazionalisti e tanto meno l’enfasi tonitruante sulla italianità quando i salari italiani sono il fanalino di coda, si abolisce il reddito di cittadinanza, si esclude il salario minimo, si taglia la sanità pubblica, si soffoca la scuola pubblica, si rinuncia a una visione aperta di un futuro pacifico e laborioso. C’è bisogno di una svolta. Questo è il tema.
Poi ci sono i giovani migranti, di prima, seconda o terza generazione, che, invece di essere visti come risorsa in un Paese di anziani, sono interpretati prevalentemente come un problema di ordine pubblico. Eppure la storia d’Italia è storia di meticciati. La leggenda di Enea, proto fondatore di Roma, lo vuole nativo di Troia, oggi in Turchia, e non di Frascati. Leggo da un articolo di Toni Maraini su Left: “Come i genetisti Luca Cavalli-Sforza e Alberto Piazza hanno documentato, il popolo italiano possiede una «eterogeneità genetica di fondo» costituitasi nei secoli a partire dagli «apporti genetici di Piceni, Liguri, Veneti, Etruschi, Celti, Sardi, Greci, e Albanesi, Arabi, Normanni»”, alla faccia delle sciocchezze razzisteggianti sulla purezza dell’italianità della stirpe italica. Piaccia o meno, il futuro (e anche il presente) dell’Italia è in parte importante nel governo della crescita di una o più generazioni di nuovi italiani, nel varo di leggi sullo jus soli e sullo jus culturae, nell’accompagnamento dei bambini e dei ragazzi di origine non italiana nella storia, nelle istituzioni e nella vita quotidiana del nostro Paese, con la bussola della Costituzione.
Una lunghissima premessa, questa, per indicare il contesto in cui l’ANPI nazionale ha dato vita il 2 e 3 dicembre a Riccione all’Assemblea dei giovani e delle giovani dirigenti dell’Associazione, dal titolo evocativo “Essere ANPI, insieme”. E così siamo stati in cento, ad ascoltarci, a mescolarci, in una ordinata circolazione delle idee che ci ha migliorato riconoscendoci come comunità.
Tutto è nato, a ben vedere, al Congresso nazionale del marzo del 2022, quando si è assunto l’impegno di affrontare i temi delle giovani generazioni. La questione non può non essere centrale per un’associazione come l’ANPI che, per motivi storici, nonostante l’apertura a tutti gli antifascisti decisa nel 2006, ha ancora un’età media elevata. Peraltro la presenza attiva delle giovani generazioni in qualsiasi gruppo umano è essenziale perché, ove questa mancasse, sul lungo periodo il gruppo sarebbe destinato a estinguersi. A ciò aggiungo che fra i compiti principali e inderogabili di un gruppo dirigente c’è la costruzione del gruppo dirigente successivo.
Così siamo arrivati a Riccione alternando la discussione in assemblea al lavoro di quattro gruppi tematici e anche a una bella serata di socialità in un accogliente pub locale. Niente cronaca, se non per segnalare l’introduzione di Silvia Folchi e la relazione di Gabriele Bartolini, entrambe preziose, e l’interessantissimo dibattito successivo.
Queste ragazze e questi giovani sono l’avamposto dell’ANPI nella società attuale, rappresentano l’organizzazione di una moderna coscienza critica antifascista all’interno delle giovani generazioni a scuola, all’università, al lavoro, nei luoghi di ritrovo. Sono e saranno loro i primi a misurarsi con la complessità dei problemi dei giovani, ad alcuni dei quali ho accennato prima. Sta a loro in primo luogo, con i codici e i linguaggi del nostro tempo, mettere a valore gli ideali della Resistenza e i conseguenti principi costituzionali che sono il portato più alto della memoria partigiana, trasformarli in guida per l’azione quotidiana dell’impegno civile, definire i contorni di una visione di futuro che ripudi i mostri del presente: la guerra, il fascismo.
Sono loro un frammento di quella che oggi, o fra dieci, venti o trent’anni sarà la nuova classe dirigente. Ecco perché nello scrigno di umanità che è l’ANPI, le giovani generazioni sono la pietra più preziosa. Se l’anziano conosce la strada – come ho scritto – è assolutamente necessario che la trasmetta alle nuove generazioni. In caso contrario la sua conoscenza e cieca.
E allora cogliamo l’occasione per fare il punto, senza paternalismi e senza giovanilismi. Vediamo in concreto come siamo ANPI insieme, come facciamo ANPI insieme, come rafforziamo la catena virtuosa della comunicazione delle esperienze, come promuoviamo una generazione standole però a fianco, come facciamo sì che il messaggio costituzionale e antifascista entri nelle scuole e nelle università dalla porta principale, come promuoviamo una cultura della liberazione per i tanti giovani rassegnati a un presente senza passato e senza futuro, come costruiamo comunità contro i seminatori seriali di solitudine sociale, come iniziamo a capovolgere lo stato di cose riscoprendo il valore costituzionale della partecipazione popolare, intrinsecamente negato da qualsiasi tentativo di virare verso una democrazia autoritaria.
Come fare il punto? A partire dall’ascolto e dalla circolazione delle idee. Questa è stata forse la lezione più interessante di Riccione. Ci siamo ascoltati senza stanche polemiche né accondiscendenze formali. Le vicende quotidiane dei giovani, il significato dell’antifascismo, il contrasto alla seduzione del fascismo nelle scuole, il senso della militanza, il ruolo dei giovani dirigenti, la fiducia e lo smarrimento, l’entusiasmo e la delusione, il complesso e il banale, la razionalità e l’emozione. Ci siamo interrogati sulle forme di coinvolgimento dei giovani che vanno ben oltre la conferenza o il dibattito. Abbiamo affrontato la specifica condizione delle ragazze anche nell’ANPI, per superare definitivamente stereotipi e comportamenti che non aiutano la crescita e che possono frustrare o addirittura allontanare. In parole povere abbiamo parlato della vita e perciò siamo tornati rafforzando le motivazioni che ci fanno resistenti in questo tempo nemico.
Non ci basta. Bene sarà che questa discussione ricada nei comitati provinciali, diventi linfa che scorre nel sistema circolatorio dell’intera associazione. Abbiamo intrapreso con chiarezza una via. Guai, ora, a fermarsi!
Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale ANPI
Pubblicato mercoledì 20 Dicembre 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/essere-anpi-insieme/a-riccione-la-meglio-gioventu-guai-ora-a-fermarsi/