L’acquisizione di Rcs libri da parte di Mondadori ha avuto il merito di rendere scottante il dibattito sulle sorti della piccola e media editoria. Ci ragiona in chiave ironica, anzi grottesca, Antonio Manzini, padre del vicequestore Rocco Schiavone, in un romanzo, questa volta distopico, Sull’orlo del precipizio (Sellerio), kafkiana, o orwelliana, vicenda di Giorgio Volpe, il più grande scrittore italiano dei suoi giorni, che, tra le mani le bozze dell’ultimo lavoro, apre gli occhi su una realtà alloppiante: la casa editrice per la quale ha sempre con affetto e onestamente pubblicato è diventata un mostruoso monorganismo che tutto domina. Tutto il mercato, tutti gli autori, tutti i testi. Tutti i prodotti.
Al lettore curioso lascio di scoprire come la trappola in cui s’impania Giorgio Volpe venga o meno elusa, ragionando qui sul modo in cui oggi una piccola o media casa editrice possa resistere nel mare magnum della produzione libraria italiana. Chi scrive non è un editore né un professionista del campo. Io quel mondo lo conosco come autore (poco più che esordiente) e soprattutto come lettore. Perciò non intervengo per prescrivere formule né rimedi, ma solo per snocciolare una serie di personali riflessioni.
Innanzitutto alcuni dati (prima di scrivere questo articolo, non li conoscevo; o meglio, non ne avevo una percezione tanto nitida. Visti nero su bianco, uno dietro l’altro, mi hanno fatto inarcare le sopracciglia): in Italia vengono pubblicati (almeno nell’ultimo lustro) tra i 50.000 e i 60.000 titoli l’anno, e oltre 8.000 sono le case editrici presenti sul suolo nazionale, sebbene solo poco più di mille riescano a pubblicare almeno 10 libri ogni dodici mesi (io credo che un lettore forte conosca al massimo 100, forse 150 editori). Qualcuno potrebbe dire che la produzione libraria italiana ha una struttura vertiginosamente piramidale al cui apice stanno quei pochi Grandi che scodellano tanti libri, e poi, via via, i Medi e i Piccoli che di libri, per evidenti motivi economici, ne sfornano progressivamente di meno. C’è un però. Ed è che solo 150/200 libri all’anno raggiungono tirature di 20.000 copie, mentre l’infinito arcipelago degli altri titoli incespica tra le 500 e le 1.500. Questa non è una struttura a piramide; questo è un coperchio di padella, piuttosto largo e alquanto sottile, con un pomello piccino piccino su cui si arrampicano pochi autori e pochissimi editori.
L’editoria nostrana è dunque un ampio e stracarico veicolo, alla cui guida, forse senza patente o in stato di ebbrezza, mi piace pensare ci stiano i sempre più deboli e meno numerosi lettori (è per questo che i libri per ragazzi sono in crescita? Per allevarne di nuovi, più freschi, più coscienti?). E quali sono i guai in cui versano i Medi e i Piccoli editori? Innanzitutto io non credo nel danno provocato all’Altra editoria da Mondazzoli (o Rizzandori, come suggerisce di nominare la virile fusione – con richiamo viagresco – il celebre agente letterario Roberto Santachiara). Mondadori e Rcs erano già grandi (parlo in termini quantitativi) prima e già prima schiacciavano i Piccoli.
La pressione ora esercitata non credo possa essere proporzionalmente maggiore. Semmai il problema sussiste per i gruppi che sono stati inghiottiti dal Minotauro, in termini di minore autonomia; non per nulla Roberto Calasso si è ricomperato il gioiello adelphiano, Rosellina Archinto lo storico marchio che porta il suo nome, e Elisabetta Sgarbi ha scarnificato Bompiani di se stessa e di un gruppo dorato di nomi illustri (da Eco a Veronesi, da Tahar Ben Jelloun a Michael Cunningham) pronti al varo della Nave di Teseo. Penso piuttosto che adesso, come prima, il problema maggiore sia il numero astronomico di libri pubblicati a petto del restringimento del bacino dei lettori. Migliaia di titoli vomitati dalla smania ipermoderna per la novità e per l’aderenza a ciò che è attualità mediatizzata (un centinaio di libri sull’Isis nell’ultimo anno, e quasi zero sulle numerose guerre che insanguinano i quattro cantoni dell’Africa) non fanno bene a nessuno. Ai Piccoli (e Medi) editori ciò induce, in particolare, una frustrante perdita di visibilità che si somma ai problemi di distribuzione e ai sempre più inconsistenti passaggi in vetrina (un libro oggi sta mediamente in libreria per 30-40 giorni e poi viene reso all’editore).
La concorrenza è spietata. I piccoli pedoni debbono reggere di fronte al gagliardo strapotere economico di alfieri, torri e regine (a volte vanagloriose, a volte semplicemente nobili per le risorse che hanno e per i libri – belli – che pubblicano). E mentre i Grandi snocciolano ai loro sottoposti forme contrattuali che alimentano il precariato (secondo la formula ormai celebre: se rinunci a questo lavoro, troveremo senz’altro qualcuno che lo farà al posto tuo), i Piccoli lavorano ormai con organici ridotti all’osso. Come resistere? (E per i più Piccolini) come continuare a esistere?
L’iperproduzione, come l’incontinenza, non si può calmierare (a meno che un giorno o l’altro il governo non introduca una ‘quota libri’ sul modello della ‘quota latte’); campi dei miracoli in cui far crescere soldi non ce ne sono. Dunque è bene che il Piccolo (forse più che il Medio) resista tenendo ben fermi i principi con i quali si è infilato nella mischia. Occorre che ci sia alle spalle un progetto editoriale netto, un progetto editoriale forte, e che esso venga sviluppato in maniera coerente nel tempo. Occorre darsi una veste grafica non solo accattivante ma ben riconoscibile. Occorre confezionare un prodotto sempre buono perché nella piccola editoria non sono tollerabili gli scarti o le seconde scelte che invece fanno massa nei folti cataloghi dei big. Occorre continuare a credere che solo con la cultura si possa uscire dalla crisi. Occorre sperare ancora nelle splendide follie della ragione umana.
Tutti apprezzabili e condivisibili propositi. Tutti da inseguire, da domare, da cavalcare. Dire come, però, non è facile. Specie per uno, come me, che non fa l’editore di mestiere. Io scrivo (poco) e leggo (molto). E credo che, di là dalle sacrosante posizioni di difesa qui elencate, il Piccolo e Medio editore non debbano mai capitolare di fronte a ciò che è facile e immediato. Ciò che è facile e immediato, il libro che carezza le nostre aspettative di lettori pigri, è appannaggio dei Grandi. Sono loro che propongono (accanto ad altri bellissimi testi) il romanzo che trucca i sentimenti e arriva subito al cuore. I Grandi hanno per loro natura – possono permettersi – un reparto di libri scheggia, di libri veloci, di libri fast. I Piccoli non hanno le risorse né la visibilità per farli. E non deve essere, a parer mio, nella loro indole. I Piccoli e i Medi devono puntare a produrre degli slow book, libri da leggere adagio, libri da assaporare come un vino buono, come un formaggio stagionato, come una spezia rara.
Resistere significherà quindi mettere un freno alla marcia a tappe forzate imposta dal mercato, vorrà dire opporre alla frenesia una tenace perseveranza. Perché? Perché comunque mancherebbe un motore sufficientemente aggressivo, perché a correre a rotta di collo tutti insieme si finisce per cadere, e perché ogni libro – ben più di un diamante – dovrebbe essere per sempre.
Giacomo Verri è nato nel 1978 a Borgosesia. Lì fa l’insegnante di Lettere alle scuole medie. Ha scritto su Nazione Indiana, Doppiozero, Il Primo amore, Nuova Prosa, LibriSenzaCarta, L’impegno. Ha collaborato alle pagine culturali del quotidiano l’Unità, e ora recensisce per Satisfiction e La poesia e lo spirito. Cura la rubrica Radici e Dedali sulla rivista Zibaldoni e altre meraviglie. Partigiano Inverno, testo finalista al Premio Calvino 2011, è stato il suo primo romanzo, pubblicato da Nutrimenti nel 2012. Con Racconti partigiani (Biblioteca dell’immagine, 2015) torna a parlare di Resistenza, quella di ieri e quella di oggi.
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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