In un articolo apparso sull’Unità online del 12 settembre Francesco Pignotti (http://www.unita.tv/focus/cosa-si-sceglie-votando-no-al-referendum-in-10-punti/) espone un punto di vista particolarmente critico sulle ragioni del No alla riforma costituzionale (Cosa si sceglie votando No al referendum. In 10 punti) e svolge un ragionamento che, fidando in modo non troppo misurato sulla forza della propria assertività, finisce con il dare per dimostrato quello che è solo icasticamente affermato. Ne consegue una forzatura sistematica delle posizioni che si intendono confutare: un metodo sempre poco proficuo, ma tanto più sconsigliabile quando la natura delicata e complessa della materia in discussione richiede cautela e maggiore capacità di ascolto delle ragioni opposte.
Sostiene in primo luogo l’Autore che, poiché il referendum non è tra proposte alternative (ma quando mai lo è stato nel nostro ordinamento?) “chi chiede un No non invita a scegliere un’alternativa migliore: non c’è nessun’altra soluzione da poter scegliere, semplicemente chi sceglie il No si dichiara contrario a ciò che sta in questa riforma”. L’ultima affermazione è una tautologia, che non ha alcun legame logico con i due postulati che la precedono (“chi chiede un No non invita a scegliere un’alternativa migliore”; “non c’è nessun’altra soluzione da poter scegliere”) e che, nell’economia del discorso, introducono una vera e propria distorsione della verità. Per il semplice motivo che votare No alla riforma costituzionale non significa affatto volersi attestare su una posizione di pura conservazione dello status quo. A meno che l’articolista dell’Unità non voglia sostenere il cambiamento fine a se stesso, a prescindere dai suoi contenuti. Di certo non è così, anche se potrebbe sembrarlo.
Coerentemente con le premesse, però, nel punto 1 si afferma che “chi invita a votare No è contrario all’abolizione del bicameralismo paritario, un unicum mondiale”. Questa affermazione è falsa, dato che il voto contrario alla riforma del Senato non è affatto di per sé un voto favorevole alla conservazione del bicameralismo perfetto, ma la manifestazione del dissenso sui contenuti specifici della riforma in discussione, che consistono, in sintesi, in un ridimensionamento ingiustificato della rappresentatività delle Camere, nella creazione di una seconda camera composta da consiglieri regionali e sindaci (per non parlare dei cinque senatori di nomina presidenziale), con attribuzioni incerte, e che, nella migliore delle ipotesi, si ridurrà ad una camera di compensazione di interessi territoriali, con membri, tra l’altro, che avranno difficoltà ad assolvere l’una o l’altra delle funzioni loro affidate. Non per caso, nel testo vigente, l’articolo 122 dichiara incompatibile la carica di consigliere regionale con quella di membro della Camera o del Senato. È appena il caso di ricordare che con la riforma del Senato emerge al livello della rappresentanza politica nazionale un ceto politico come quello regionale, che recentemente non ha dato grandi prove di competenza e di onestà. Il fatto poi che il bicameralismo perfetto sia un unicum mondiale è un dato oggettivo, ma di per sé non implica alcun giudizio di valore; anche il Bundesrat (il Senato tedesco) è unico nel suo genere, ma non per questo i tedeschi intendono disfarsene, pur avendolo riformato.
Non c’è dubbio tuttavia che il bicameralismo paritario possa e debba essere superato. Vi sono interessanti proposte in campo, a partire dalla stessa nozione di bicameralismo procedurale, di cui la stessa riforma offre una versione farraginosa e viziata dalle difficoltà che nascono inevitabilmente quando prima si crea un organismo e poi si cerca di capire quali attribuzioni gli si possono assegnare. Tralasciando la congerie di procedimenti legislativi (che peraltro non costituiscono certo una semplificazione), valga una sola considerazione, a titolo esemplificativo: la riforma costituzionale affida al Senato funzioni, come la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni ed il concorso alla verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato, che possono essere efficaci soltanto come esplicazione del rapporto fiduciario con il Governo, rapporto che però riguarda solo la Camera dei deputati. È un esempio, tra i tanti, delle incongruenze e delle contraddizioni di questa riforma; una volta respinta, si potrà discutere con più serenità e fors’anche con maggiore cognizione di causa nel merito di proposte intese a modificare anche profondamente l’attuale sistema bicamerale.
Al punto 2, Francesco Pignotto imputa a chi voterà No la non lieve colpa di non volere la stabilità di governo. Su questo tema però occorre veramente uno sforzo di riflessione per sfuggire a polemiche che rischiano di risolversi in una sterile contrapposizione di slogan. Bisogna tornare alla cosiddetta prima Repubblica per risalire alla genesi di una convinzione talmente diffusa che si è trasformata in luogo comune, e che consiste in sostanza nell’idea che la governabilità è la risultante di due elementi: la supremazia dell’Esecutivo e del suo leader come centro di imputazione dell’indirizzo politico e la garanzia di tale posizione attraverso la formazione di maggioranze parlamentari stabili, da realizzare attraverso norme ordinamentali che privilegino la polarizzazione del sistema politico rispetto all’articolazione della rappresentatività. Si tratta di misure maturate nel tempo, alcune delle quali hanno tentato di fronteggiare situazioni obiettive e di rispondere a esigenze reali, e che sono state condivise probabilmente anche da molti di coloro che voteranno No al referendum costituzionale (si pensi, ad esempio, alla riforma elettorale del 1993). Il problema è capire però se si tratti di ricette sufficienti ad affrontare la situazione presente, e soprattutto se la radicalizzazione di alcune delle misure sopra indicate, soprattutto nella legislazione elettorale (che si intreccia strettamente con la riforma costituzionale in quanto appare funzionale e realizzarne le finalità di fondo), non possa comportare esiti differenti da quelli auspicati. Occorre, in altri termini, verificare gli schemi generali alla luce delle condizioni di fatto. Queste ci dicono che non solo in Italia, ma in tutta Europa, la tendenza alla polarizzazione del sistema politico si è invertita, che la presenza di partiti regionali, di formazioni neo populiste, la riorganizzazione di vecchie formazioni, etc. ha reintrodotto una frammentazione che presenta indubbiamente dei rischi ma della quale non si può ignorare un aspetto fondamentale: quello della pluralità delle domande politiche che maturano nella società, alimentate da una crisi economica e sociale di proporzioni globali, e della pluralità e complessità delle forme con cui esse si esprimono. Così che una logica di pura semplificazione della rappresentanza rischia di rinviare ma non di risolvere questioni essenziali, che attengono alla stessa tenuta democratica di un sistema politico. Il punto di dissenso non riguarda quindi l’obiettivo della stabilità del sistema politico, ma l’individuazione degli strumenti più idonei a realizzarlo.
Il combinato disposto Italicum/riforma costituzionale potrebbe, in altri termini, realizzare una semplificazione del sistema politico più apparente che reale ed allargare ulteriormente il divario che oggi separa istituzioni e cittadini. La riforma sembra rivolta ad estendere – con i dovuti distinguo – alcuni principi che da qualche anno a questa parte reggono Regioni e Comuni: investitura diretta del vertice del governo locale, legge elettorale in grado di garantire maggioranze stabili. Per molto tempo questo sistema ha funzionato, ma da qualche anno a questa parte ha iniziato a fare acqua da tutte le parti: la concentrazione dei poteri nel sindaco o nel presidente della Regione e l’emarginazione degli organi rappresentativi collegiali (consigli regionali e comunali) ha indebolito e non rafforzato la posizione del primo cittadino o del presidente della Regione nel suo rapporto con l’elettorato; la mancanza di contrappesi nei confronti degli estesi poteri attribuiti all’organo monocratico ha finito con il mortificare il ruolo costituzionale dell’opposizione, determinando la fuga nel sottogoverno e l’assenza di quello che è l’ossigeno di ogni democrazia: il controllo dell’organo elettivo sul potere esecutivo. Questi fatti hanno determinato una grave crisi del sistema di governo locale: Roma docet, ma la capitale non è sola.
La riforma costituzionale accentua una direzione di marcia già tracciata in questi anni, ma forse insistere su di essa può rivelarsi controproducente, anche ai fini che i sostenitori del Sì intendono perseguire. Forse l’obiettivo di una maggiore stabilità può essere realizzato attraverso altre forme, che contemplino la valorizzazione del ruolo delle istituzioni rappresentative, soprattutto nell’esercizio di una funzione di controllo sull’operato del Governo che si è rivelata molto deficitaria in questi ultimi anni. In tale contesto, uno statuto dell’opposizione è assolutamente necessario, ma, esso non può, come prevede la riforma, essere deliberato a maggioranza dei componenti della Camera, poiché con ciò si affiderebbe alla forze politiche emerse vittoriose dalle urne il compito di definire le prerogative della minoranza. È altresì auspicabile il rafforzamento degli strumenti di partecipazione diretta, che peraltro la riforma non attua immediatamente, poiché affida a una successiva legge costituzionale l’introduzione del referendum propositivo e di indirizzo (maggiore perplessità desta l’abbassamento del quorum per la validità del referendum abrogativo richiesto da 800 mila elettori); così come appare senz’altro necessario definire un rapporto più equilibrato tra centro e periferia, che però deve svolgersi nell’osservanza piena dei principi dettati dall’articolo 5 della Costituzione, e non può risolversi in una torsione neo centralista, quale emerge complessivamente dal testo della riforma che pure, rispetto all’attuale stesura del Titolo V, trasferisce opportunamente alcune competenze dalle regioni allo Stato centrale.
Prosegue l’Unità: “Chi invita a votare No è contrario alla riduzione del numero dei parlamentari; è contrario alla riduzione del numero delle indennità; è contrario alla riduzione degli stipendi dei consiglieri regionali ad un tetto massimo pari allo stipendio del sindaco del comune capoluogo; è contrario all’abolizione del finanziamento dei gruppi politici nei consigli regionali”. Tutto bene, salvo qualche precisazione: chi accusa i sostenitori del No di non volere ridurre il numero dei parlamentari sostiene, a sua volta, il mantenimento di una Camera dei deputati composta da 630 deputati: questo sì un unicum mondiale, al quale sarebbe stato molto facile porre rimedio nell’ambito della riforma! Inoltre, per le misure di spesa elencate così puntigliosamente nonché per il pur apprezzabile intervento sul riequilibrio della rappresentanza di genere, la modifica introdotta dalla riforma appare pletorica e dettata più che altro da esigenze di carattere mediatico, dato che il testo vigente dell’articolo 122, rinviando (come fa anche la nuova stesura) alla legge ordinaria, consente già ora di modulare le indennità dei consiglieri regionali e di fissare tetti retributivi. Anche il riequilibrio della rappresentanza di genere costituisce un corollario del principio di eguaglianza, e come tale può essere attuato con legge ordinaria.
Sommessamente, vorremmo ricordare che il fine principale di una riforma costituzionale non può non essere il miglioramento della qualità della vita democratica; esso non può essere costituito dalla riduzione della spesa pubblica né, come afferma l’ambasciatore statunitense, dall’obiettivo di rendere più attrattivo il nostro Paese agli investimenti stranieri, non perché tali finalità non siano rilevanti, ma perché esse possono essere perseguite più efficacemente con gli strumenti di cui già attualmente dispongono Parlamento e Governo.
Se poi si affronta il tema della formazione di altri organi di vertice dello Stato, la posizione contraria alla riforma costituzionale non si fonda affatto sulle ragioni addotte dall’Unità: nell’elezione del Presidente della Repubblica la modifica del sistema dei quorum rende oggettivamente più agevole la prevalenza del candidato della maggioranza di Governo, riducendo così il ruolo di garanzia dell’organo di vertice dello Stato (che nomina inoltre cinque componenti di un Senato composto di 100 membri), mentre l’elezione da parte di un Senato ridimensionato nella sua rappresentatività nel suo peso istituzionale appare francamente sproporzionato di ben due membri della Corte Costituzionale risulta una misura palesemente squilibrata e non conforme al ruolo di garanzia affidato al giudice delle leggi.
La costituzionalizzazione di norme legislative ordinarie, di regolamenti parlamentari e di principi di giurisprudenza costituzionale in materia di limitazione del ricorso alla decretazione d’urgenza, pure richiamata dall’Unità, non costituisce di per sé una vera e propria innovazione del sistema, ma opera una modifica formale sul piano della gerarchia delle fonti, così come la costituzionalizzazione dell’obbligo di discutere e deliberare sulle proposte di legge di iniziativa popolare mediante rinvio ai regolamenti parlamentari costituisce una modifica più di facciata che di sostanza.
La conclusione dell’articolo dell’Unità è francamente sconcertante: “chi invita a votare No sceglie di tradire il coraggio e lo spirito dei padri costituenti che in periodo post-bellico, all’indomani della fine del ventennio fascista, hanno disegnato una prima parte della Costituzione che è la più bella del mondo, consegnando alle future generazioni (cioè a noi) il compito di aggiornare la seconda parte, frutto in quella precisa fase storica di un compromesso tra le forze politiche finalizzato alla non decisionalità del sistema”.
Altro che coraggio e spirito dei padri costituenti! L’Unità li trasforma in un gruppo di furbacchioni (sarebbe meglio dire padrigni più che padri) che prima, non si sa come, scrivono un inizio della Costituzione strepitoso, poi, con assoluta e incomprensibile schizofrenia, stipulano nella seconda parte uno straccio di compromesso “finalizzato alla non decisionalità del sistema”. Tanto, avranno pensato, ci penseranno i posteri a rimediare i guai!
No, amici dell’Unità, sarebbe stato meglio non usare argomenti degni di Libero o del Giornale. Chiunque legga gli atti dell’Assemblea Costituente (e sarebbe il caso di farlo con attenzione) non può non cogliere, nelle intenzioni, nelle parole e negli atti dei costituenti, l’idea di un nesso strutturale di continuità e coerenza tra le diverse parti della Carta, e in particolare tra la costruzione di un sistema di decisione fondato sul governo parlamentare e dotato di forti contrappesi nei circuiti di garanzia, e l’attuazione dei principi fondanti della Costituzione. Il compromesso fu incontro di tradizioni politiche diverse ma convergenti nell’intento di dare vita ad un ordinamento democratico innovativo; altro che l’intesa furbesca al ribasso che viene spacciata dall’Unità!
Certamente, non tutte le norme organizzative della Costituzione si sono rivelate adeguate, ed alcune possono e devono essere modificate. Ma viene da pensare che, forse, sono proprio i riformatori di oggi a fare affidamento sul futuro per sistemare i potenziali guasti prodotti da un testo confuso e squilibrato che, se confermato dalla consultazione popolare, si rivelerebbe comunque bisognoso di un profondo e rapido rimaneggiamento. In quel futuro probabilmente prossimo, allora, chi si trovasse tra le mani l’Unità del 12 settembre e ne leggesse le conclusioni potrebbe a buona ragione commentare: de te fabula narratur!
Pubblicato venerdì 23 Settembre 2016
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