La scelta di riformare la Costituzione in questa legislatura (la prima nella storia della Repubblica con un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata illegittima) suscita forti perplessità. Se a ciò si aggiungono il ruolo direttivo assunto dal Governo nell’iter del disegno di legge costituzionale (con il contingentamento dei tempi di discussione, la sostituzione nelle commissioni parlamentari dei componenti non in linea con le opinioni della maggioranza, la minaccia di porre la questione di fiducia sui passaggi più significativi della riforma) e la scarsa qualità del testo finale (che appare in molte parti confuso e poco comprensibile), i dubbi si fanno ancora più consistenti.
L’aspetto più inquietante dell’intera vicenda viene tuttavia dalle possibili interazioni tra gli effetti della riforma e quelli della nuova legge sull’elezione della Camera dei deputati (cosiddetto Italicum).
Quest’ultima conferma il premio – già previsto dalla legge precedente (cosiddetto Porcellum) e annullato dalla Corte costituzionale in quanto suscettibile di determinare un’eccessiva alterazione della rappresentanza democratica (sentenza n. 1/2014) – di 340 seggi sui 630 della Camera (pari a circa il 54%). Si tratta di un vero e proprio premio di minoranza attribuito alla lista che raggiunga la soglia minima del 40% dei voti (con una forbice tra voti e seggi che può arrivare fino al 14%). Se nessuna lista raggiunge tale soglia, si va al ballottaggio tra le due liste che hanno ottenuto il maggior numero di voti, senza possibilità di apparentamento al secondo turno. Il che consente a partiti e movimenti che abbiano ottenuto basse percentuali di voti (il 20%, il 15%, il 10%, o meno) al primo turno, ma che a causa della frammentazione del sistema politico si siano comunque classificati ai primi due posti, di accedere al secondo turno. Alla lista che vince il ballottaggio viene assegnato il premio di 340 seggi a prescindere dal numero dei votanti. In questo caso la distorsione della rappresentanza può diventare estremamente elevata (ad esempio, se per effetto dell’astensione la lista che vince il ballottaggio ottiene meno del 25% dei voti realmente espressi, la forbice tra voti e seggi raggiunge quasi il 30%), risolvendosi in un’intollerabile violazione del principio di eguaglianza del voto.
Quel che è certo, in ogni caso, è che la minoranza vincitrice viene a disporre per legge di una maggioranza più che assoluta alla Camera: una maggioranza che nell’impianto del disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi le consente non solo di approvare le leggi ordinarie (artt. 70-74 Cost.) e di votare la fiducia al Governo (art. 94 Cost.), ma anche di dichiarare lo stato di guerra (art. 78), derogare alle competenze regionali in nome dell’interesse nazionale (artt. 70 co. 4 e 117 co. 4 Cost.), eleggere il Presidente della Repubblica (art. 83 co. 2 Cost.) e modificare la Costituzione (art. 138 co. 1 Cost.). Né sembra che il nuovo Senato sia idoneo a compensare un simile sbilanciamento politico all’interno della Camera: da un lato, la sua composizione, strettamente legata all’andamento delle elezioni regionali e comunali, non dà sufficienti garanzie di equilibrio e di proporzionalità tra le forze dell’assemblea (non potendosi escludere l’eventualità di un Senato “monocolore” o quasi); dall’altro, le sue modalità operative, caratterizzate dalla gratuità e dalla residualità del mandato, non gli assicurano l’autorevolezza necessaria all’esercizio delle sue funzioni.
Non solo. Nel sistema dell’Italicum rimane l’indicazione preventiva del “capo della forza politica”, che viene di fatto candidato al ruolo di Presidente del Consiglio: un’indicazione che, oltre ad alterare la forma di governo, limitando le prerogative del Capo dello Stato e invertendo i rapporti di forza tra legislativo ed esecutivo, incide pesantemente sulla democrazia interna dei partiti. Le minoranze interne, le cui sorti sono già parzialmente compromesse dalla regola dei capilista bloccati, sono indotte a uniformarsi sempre più agli indirizzi del “capo”, vero motore politico del sistema, in quanto titolare di un rapporto diretto e privilegiato con gli elettori. Ne risulta un modello di democrazia maggioritaria, nel quale chi vince prende tutto e chi perde ha soltanto un diritto di tribuna, sia nelle sedi parlamentari sia in quelle di partito: un semplice diritto di parlare, senza poter incidere in alcun modo sulle scelte che riguardano la vita del Paese.
Se è vero, come ama ripetere il Presidente del Consiglio, che il compito della politica è quello di ascoltare tutti e poi decidere, l’impressione è che, spinti da un’ansia riformista e da un’ossessione per la governabilità, il Governo e il Parlamento abbiano in questo caso ascoltato poco e deciso male.
Come rimediare?
Allo stato attuale sembra improbabile che la maggioranza accetti di modificare il disegno di legge costituzionale, con il rischio di allungare a dismisura i tempi per la sua approvazione, o di cambiare una legge elettorale da poco entrata in vigore. Ferma restando la possibilità (sia pure entro certi limiti) di sollevare davanti alla Corte costituzionale questioni di legittimità dell’una o dell’altra, non resta, dunque, che la strada dei referendum: quello dell’art. 138 Cost., in opposizione alla riforma costituzionale, e quello dell’art. 75 Cost., per la parziale abrogazione della legge elettorale.
La parola spetta ora ai cittadini.
Marco Giampieretti, ricercatore all’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Diritto pubblico, internazionale e comunitario
Pubblicato mercoledì 23 Dicembre 2015
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