Da oltre dieci anni, il 10 febbraio si celebra in Italia la Giornata del Ricordo, al fine – come recita la legge istitutiva, n. 92 del 2004 – “di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Il passare del tempo, peraltro, non ha ridimensionato la percezione di una palpabile contraddizione tra la portata della riflessione storica, politica ed etica di cui la celebrazione di questa Giornata dovrebbe essere occasione, e le reali intenzioni e finalità di chi a suo tempo la propose. Basta scorrere infatti la discussione parlamentare dell’epoca per ritrovarvi tutti i ragionamenti più tipici del revisionismo storico di inizio secolo, nei quali il ricorso al “paradigma vittimario”, di cui ha parlato Giovanni De Luna in un recente saggio, ha operato nel senso di un vero e proprio tentativo di appropriazione dell’insieme di eventi drammatici che hanno costellato il periodo della guerra e del dopoguerra nel confine italo-sloveno, finalizzato alla loro trasformazione in una sorta di rendita memoriale da spendere in favore esclusivo di una parte politica, per strutturare intorno ad essa una narrazione mirata alla legittimazione per sé e alla delegittimazione degli avversari. Operazione tanto più grave e discutibile, se si considera che attraverso di essa forze politiche come Alleanza Nazionale e Forza Italia hanno cercato di accreditare veri e propri falsi storiografici (a partire dalla presunta italianità delle terre istriane e dalmate) e una rilettura delle vicende del triennio 1943-’45 che attribuisce una priorità assoluta al conflitto di nazionalità rispetto a quello tra antifascismo e nazifascismo, con un’unilateralità interpretativa mirata in sostanza alla riabilitazione di italiani repubblichini e tedeschi impegnati a fronteggiare “l’invasione slava” in un territorio (la Zona d’operazioni del Litorale adriatico o Operationszone Adriatisches Küstenland) peraltro sottratto all’amministrazione del governo fantoccio fascista e governato direttamente da Berlino.
Con questi antecedenti, la riproposizione di una lettura critica degli eventi occorsi nei territori di frontiera del Nord-Est italiano tra la fine del fascismo e il dopoguerra presenta non poche difficoltà, storiografiche e politiche, difficoltà che l’ANPI ha tenuto ben presente al momento di promuovere il seminario dal titolo “La drammatica vicenda dei confini orientali” tenutosi a Milano il 16 gennaio: un seminario che, come ha posto in evidenza il presidente Carlo Smuraglia, ha inteso in primo luogo incoraggiare una riflessione pacata e priva di pregiudiziali, dando la parola agli studiosi che da anni si sono cimentati su questi temi e che più di altri sono nelle condizioni di fare luce sui tanti e diversi elementi che entrano a comporre la complessità di una vicenda non riducibile nel perimetro asfittico delle interpretazioni strumentali o di parte.
L’istanza conoscitiva che ha caratterizzato questa giornata di studi ha posto in luce l’esigenza di sottoporre a verifica l’idea stessa di storiografia di confine, ovvero, come ha sottolineato nella relazione introduttiva Marta Verginella, dell’Università di Lubiana, l’idea di una storiografia che si limita alla ricostruzione della vicenda della propria comunità, senza interrogarsi sulla storia degli altri e, così facendo, tende a rinchiudersi in una prospettiva nazionale destinata ad incentivare amnesie e malintesi. A partire dagli anni 90 del XX secolo, questa impostazione è stata alimentata, nel nostro Paese, anche dalla priorità attribuita ad una dimensione memoriale tendente a privilegiare il testimone e la vittima rispetto ad una ricostruzione documentaria degli eventi. Il termine stesso “confine orientale” sottende una punto di vista nazionale che nella storiografia si è tradotto in una visione dicotomizzante, strutturata lungo l’asse della polarizzazione conflittuale tra le due comunità italiana e slovena, con modalità tali da trascurare l’analisi delle interazioni, delle contaminazioni e dei nessi che, inevitabilmente, segnano le vicende di ogni confine. In sostanza, la relazione introduttiva al seminario ha indicato un percorso di approfondimento storiografico basato sul superamento di impostazioni unilaterali e sulla continuazione del lavoro avviato sia pure in misura parziale con la relazione della Commissione italo-slovena (“I Rapporti italo-sloveni fra il 1880 e il 1956”), nella prospettiva di un approccio transnazionale, che assuma il punto di vista di entrambe le comunità e che possa parlare non solo del passato, ma anche contribuire a determinare il futuro, in un’ottica di cittadinanza europea.
La riflessione sulla complessità delle vicende trattate, ben delineata nella introduzione di Marta Verginella, è stata anche l’asse portante e il denominatore comune delle relazioni e della tavola rotonda pomeridiana. In particolare, sia la relazione di Anna Maria Vinci sul fascismo nei territori di confine sia quella di Gloria Nemec sull’esodo giuliano-dalmata (ambedue le studiose fanno parte dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia), hanno tratteggiato efficacemente la profondità delle radici degli eventi maturati nel periodo 1943-’45. La prima relazione ha evidenziato come il territorio in questione abbia costituito un vero e proprio laboratorio della crisi dello Stato liberale italiano, incapace di tradurre in atti concreti l’originario progetto di assimilazione graduale degli sloveni inclusi nei confini dei territori annessi, e costretto quindi ad appiattirsi sulla linea ultranazionalista ed anti slava di cui lo squadrismo di confine sarebbe stato l’elemento catalizzatore. Negli anni del regime, poi, nella Venezia Giulia si è accentuato il carattere policentrico e spesso eterogeneo dell’azione repressiva e di nazionalizzazione forzata, accompagnato da un tentativo di coinvolgimento degli allogeni, che ha prodotto contaminazioni inedite tra organizzazioni fasciste ed organizzazioni irredentiste slovene, meritevoli, come ha suggerito la relatrice, di ulteriori approfondimenti.
Anche Gloria Nemec, parlando dell’esodo degli italiani dai territori soggetti all’amministrazione jugoslava dopo la fine della guerra, ha affrontato il tema della snazionalizzazione anti italiana gestita dal potere popolare jugoslavo nel secondo dopoguerra, con modalità analoghe, pur con le debite differenze, a quelle adottate dall’Italia dopo il 1918 e soprattutto dopo il 1922; la relatrice ha peraltro inquadrato la vicenda dell’esodo giuliano nel contesto dei grandi spostamenti di popolazioni lungo le frontiere ridisegnate al termine della II Guerra Mondiale e si è soffermata sulla funzione di ritualizzazione e sacralizzazione della memoria assunta progressivamente dalle associazioni degli esuli giuliani e dalmati, funzione rispetto alla quale l’istituzione della Giornata del Ricordo ha costituito una sorta di catalizzatore. A questo proposito, e con riferimento ad interpretazioni storiografiche fondate sull’accentuazione della componente memoriale, la relazione, nel fornire un quadro molto dettagliato delle politiche poste in essere dal potere popolare jugoslavo contro la comunità italiana, e delle relative motivazioni, ha sottolineato l’esigenza di sciogliere in sede storiografica, il binomio foibe-esodo, saldatosi nel senso storico comune del nostro Paese con modalità che hanno condotto alla rimozione di una miriade di altri accadimenti, condizioni e motivazioni alla base dell’esodo stesso, e alla sovrapposizione di eventi tra loro distanti e comunque non legati da un nesso immediato di causalità.
Al tema del rapporto tra Resistenza italiana e Resistenza slovena è stata dedicata la relazione di Alberto Buvoli (Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione), che ha messo a fuoco il complesso andamento di una vicenda che ruota attorno alla ridefinizione del confine tra Italia e Jugoslavia e nel quale un ruolo determinante viene giocato dal Pci, unico tra i partiti antifascisti italiani ad essere riconosciuto come interlocutore dalla controparte slovena e jugoslava: la relazione parte dall’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli come criterio per la risoluzione delle questioni nazionali, contenuta nella dichiarazione tripartita dei partiti comunisti italiano, jugoslavo ed austriaco del 1934, per giungere al difficile e contrastato rapporto tra comunisti italiani e sloveni negli anni della II Guerra Mondiale; un rapporto condotto sul filo di un equilibrio estremamente precario che vedeva da un lato la linea dei comunisti italiani, intesa a privilegiare l’unità antifascista e a rinviare l’esame delle questioni territoriali al termine della guerra, e dall’altro, la posizione annessionista del movimento di liberazione sloveno, alimentata da un revanscismo che l’occupazione italiana degli anni precedenti aveva certamente rinfocolato. Si trattava peraltro, di posizioni fluide, che subiscono modificazioni importanti, soprattutto in seguito all’arresto e all’uccisione da parte dei nazifascisti di Luigi Frausin e degli altri dirigenti del Partito comunista triestino che avevano sostenuto con fermezza la linea dell’unità antifascista nell’ambito del CLN. La relazione ricostruisce quindi le oscillazioni e i dilemmi dei comunisti italiani, e i successivi cedimenti che li condussero, soprattutto a livello locale, ad accogliere il punto di vista dei comunisti jugoslavi e segnatamente sloveni, con la conseguenza di assecondare una linea politica basata non sull’unità antifascista, ma sulla contrapposizione tra forze reazionarie imperialiste e forze rivoluzionarie, e tale quindi da legittimare la repressione condotta contro elementi antifascisti italiani nella fase conclusiva della guerra e nell’immediato dopoguerra.
I pericoli impliciti nelle generalizzazioni e delle confusioni che accompagnano la ricostruzione storica di vicende così complesse sono stati messi in luce dalla relazione di Roberto Spazzali, sulla controversa questione delle foibe: questione le cui radici sono state ricondotte al clima di violenza endemica maturata nell’area giuliano-istriano-dalmata a partire dalla ridefinizione dei confini successiva al 1918 e che tocca il suo apice nel periodo 1943-’45. Al tempo stesso, la relazione ha richiamato anche le ragioni di un prolungato silenzio sui crimini perpetrati da parte jugoslava durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, ragioni ricondotte a convenienze dovute in larga misura alla diversa collocazione internazionale assunta del regime di Tito a partire dalla rottura con l’URSS nel 1948.
La relazione ha evidenziato la necessità di distinguere i vari profili storici, cronologici e geografici che vengono accomunati sotto l’espressione “foibe”, ricordando come gli eventi del 1943 debbano essere distinti, anche quanto alla localizzazione, da quelli successivi del 1944-’45, e richiamando l’attenzione soprattutto sulla diversità, per natura e motivazioni, dei crimini che si consumarono, dalle vendette individuali all’omicidio politico, e sui diversi livelli di responsabilità, individuali e collettive, private ed istituzionali, soprattutto per quello che riguarda l’attività repressiva dello Stato jugoslavo. La ricostruzione delle biografie delle vittime è in questo contesto un compito necessario, anche se di difficile realizzazione, che il relatore ha indicato come prospettiva di lungo periodo per ricostruire vicende sulle quali ormai nessuna reticenza è più giustificabile.
La tavola rotonda pomeridiana, coordinata da Marcello Flores, presidente del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (INSMLI), con gli interventi di Franco Ceccotti (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia), Luciana Rocchi (Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea), Jože Pirjevec (Università del Litorale) ed Enrico Miletto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”) ha dato conto della ricchezza degli spunti offerti alla riflessione e della necessità di procedere ad ulteriori approfondimenti, secondo i suggerimenti avanzati nei diversi interventi ed i temi in essi toccati: la radice risorgimentale e nazionale di un espansionismo italiano che dalla Prima Guerra Mondiale in poi ha alimentato opposti irredentismi, che oggi possono essere riconsiderati alla luce di una visione “transfrontaliera” che superi ogni residuo nazionalismo; il rapporto tra la Resistenza italiana e la Resistenza slovena, nel suo svolgimento complesso e nel contesto internazionale entro il quale si sviluppò; il recupero e la valorizzazione di tutte le fonti che consentano la ricostruzione delle biografie delle vittime delle foibe; le drammatiche condizioni di vita dei profughi giuliano-dalmati giunti in Italia, nonché i condizionamenti politici che hanno accompagnato (e in molti casi distorto) la memoria e la storia dell’esodo; l’adozione di iniziative che favoriscano un approccio multinazionale e la collaborazione tra storici italiani, sloveni e croati nella ricostruzione di una storia e di una memoria da condividere.
Come ha ricordato il presidente Smuraglia al termine dei lavori, il seminario di Milano è un contributo alla comprensione di una vicenda che chiede ancora oggi di essere esplorata con cautela, per la molteplicità dei fattori storico-politici che hanno concorso a determinarla, ma anche con la determinazione necessaria a superare reticenze che oltre a essere ingiustificabili dal punto di vista etico e storiografico, hanno alimentato distorsioni e strumentalizzazioni utili forse a fini contingenti di lotta politica, ma certamente incompatibili con qualsiasi ricerca seria e spassionata della verità.
Pubblicato martedì 2 Febbraio 2016
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