Su come e perché la mimosa sia divenuta il fiore dell’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, esistono varie vulgate.
Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stata la onorevole Teresa Mattei, sorella di Gianfranco Mattei, caduto durante la Resistenza romana, e nota per essere stata la più giovane deputata alla Costituente (oggi purtroppo scomparsa), ad aver pensato di fare della mimosa il fiore simbolo dell’8 marzo quando, durante la lotta di liberazione, in Toscana, militava nei GDD (“Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”).
Ma in proposito esistono anche altre diverse versioni: la onorevole Lina Fibbi, compianta militante e dirigente delle donne del PCI e, successivamente segretaria del sindacato tessili, affermò che l’idea di scegliere quel fiore sarebbe stata dell’onorevole Luigi Longo, dirigente del Comitato di liberazione dell’alta Italia (CLNAI): durante la Resistenza, secondo la onorevole Fibbi, l’8 marzo la mimosa sarebbe anche stata deposta sulle lapidi dei caduti e i nazisti se ne sarebbero accorti. Tale versione però sembra improbabile: è possibile che ciò sia potuto accadere in Liguria, ma non sembra credibile che durante la guerra, e sotto i massicci bombardamenti, la mimosa venisse importata in Piemonte o in Lombardia.
Può darsi che la mimosa abbia una doppia maternità (o paternità…) o addirittura una maternità molteplice. Ricordo che in una riunione del Comitato Direttivo Nazionale dell’UDI nelle sale di palazzo Giustiniani, prima provvisoria sede dell’Associazione, forse nella primavera del ’45 (oppure, più probabilmente, in occasione dell’8 marzo 1946, il primo che si celebrava nell’Italia ormai libera) venne discussa l’opportunità di scegliere un fiore per l’8 marzo: rammento che fu la onorevole Giuliana Nenni, che era stata a lungo in esilio in Francia, a proporre che in quella giornata venisse distribuito un fiore. «Come – disse – a Parigi il primo maggio si distribuiscono i mughetti». Cominciammo perciò a discutere su quale fiore scegliere.
Scartammo ovviamente il garofano, già legato al 1° maggio, escludemmo gli anemoni perché troppo costosi. Poi qualcuna di noi, che abitava a Roma e aveva negli occhi in quei giorni i grandi alberi coperti di fiori gialli che crescevano nei giardini e nell’agro romano propose la mimosa.
Sembrò una scelta convincente, perché, almeno nei dintorni di Roma, fioriva abbondante e poteva esser raccolta sulle piante che crescevano selvatiche. Come si vede sulla mimosa si è molto almanaccato e invece le ragioni della scelta furono essenzialmente pratiche!
Esiste nell’Archivio dell’UDI copia della circolare diretta ai Comitati provinciali dell’associazione per informarli della scelta, sulla quale io stessa avevo disegnato un approssimativo rametto di mimosa con l’apposito punteruolo, che incideva la cera sul cliché, necessario a riprodurre le copie al ciclostile (non esistevano allora fotocopiatrici).
Non so se fu scelta felice, se non per i coltivatori liguri, per i quali nel corso degli anni si sarebbe aperto un imprevisto mercato. Nel Lazio e nel sud, infatti, dove la pianta cresce spontanea, sovente fiorisce assai prima dell’8 marzo. Mi venga consentito un ricordo personale. Quando ero dirigente dell’UDI di Roma, ne facevamo venire quintali da Sanremo: oltretutto i chicchi erano più grossi, più intensi di colore, più profumati. Ma trasportare decine e decine di ceste per tre piani di scale – nel vecchio palazzo di via Torre Argentina dove avevamo la sede non c’era ascensore – e trascorrere intere giornate a dividerla e a farne mazzetti era penoso: dopo qualche ora l’odore diveniva insopportabile e il polline che si diffondeva nelle stanze provocava un prurito insostenibile. In quei giorni mi sarei ben guardata dal rivendicare con le mie compagne di sventura dell’UDI di Roma la co-maternità di quella scelta.
Compiuta la scelta, l’UDI si adoperò per distribuire la mimosa in tutte le possibili sedi. Cominciammo a invitare gli alunni a offrire un mazzo di mimosa alle proprie insegnanti, i negozi a decorare con la mimosa le vetrine, le militanti dell’associazione a distribuire per strada mazzetti di mimosa. Nel 1952, addirittura, convincemmo Giuseppe Di Vittorio (eletto consigliere comunale di Roma) ad andare personalmente in giro per gli uffici comunali a offrire la mimosa alle dipendenti, persuase che neppure le più accanite democristiane avrebbero rifiutato un omaggio che veniva dal Segretario generale della CGIL, noto e stimato anche per le sue battaglie in favore dei lavoratori del pubblico impiego. La scelta infatti ebbe successo.
Ma non sempre distribuire la mimosa fu pacifico. Ricordo, per esempio, che quando distribuivamo la mimosa per strada, negli anni di Scelba, la mimosa veniva considerata un simbolo sovversivo, un simbolo di sinistra, un simbolo dell’opposizione; ci venivano sequestrati i mazzetti, le nostre attiviste venivano fermate e portate in questura, multate per “questua non autorizzata”, anche se noi offrivamo la mimosa gratuitamente. Poi, col passare degli anni, col mutare della situazione politica e soprattutto con i governi di centrosinistra (il Partito socialista aveva sempre celebrato l’8 marzo), la Giornata Internazionale della donna cominciò a essere riconosciuta, venne celebrata in Parlamento, nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni. E la mimosa si è imposta. Ho visto persino, negli anni sessanta, le ragazze che sfilavano in corteo facendo il segno della P38 con la mimosa in petto.
Oggi è triste vedere che la mimosa venga venduta per strada dai “vu cumprà” extracomunitari, che i ristoranti organizzino cene per l’8 marzo e si programmino feste nelle “balere”, perfino manifestazioni dedicate alle donne con spogliarelli maschili, cosa abbastanza volgare… Nell’ ultima fase, nei decenni dominati dal consumismo, l’8 marzo, in qualche modo ha perso la sua carica da giornata di lotta ed è stato colonizzato dal mercato. Il mercato ha colonizzato il Natale, ha colonizzato la Pasqua: era difficile che non colonizzasse anche l’8 marzo, fa parte del processo di commercializzazione in atto negli ultimi decenni. E se è diventato un evento commerciale il Natale, non deve meravigliare che lo sia divenuta anche la giornata dell’ 8 marzo e, con essa, la mimosa.
Non c’entra molto, ma è divertente riprodurre quanto scrive Alfredo Cattabiani nel Florario alla voce Mimosa: «La mimosa, che in botanica è chiamata acacia dealbata, è stata introdotta dalla Tasmania in Europa all’inizio del secolo scorso [1800, n.d.r.]. […] La scelta [di adottare la mimosa come fiore dell’8 marzo] fu scelta felice anche simbolicamente perché la mimosa indica il passaggio dalla morte a uno stato di luce nella Luce. È un simbolismo comune a tutte le acacie che hanno rappresentato l’idea della resurrezione nelle religioni precristiane e il Cristo resuscitato nelle Chiese primitive di Oriente e dell’Egitto: caratteristica che si ritrova nelle società ermetiche del Medioevo e della Massoneria […]. È dunque un emblema di Rinascita, di Vittoria; ma essendo una pianta eccezionalmente vitale e robusta nonostante il suo aspetto fragile, potrebbe evocare anche l’energia “celata” della femminilità».
Marisa Rodano, antifascista, membro dei Gruppi di Difesa della Donna, già parlamentare per il Pci e già Presidente nazionale dell’Unione Donne Italiane
Pubblicato lunedì 7 Marzo 2016
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