Maino se n’andato a fine marzo, alla veneranda età di 103 anni. Classe 1913, di famiglia aristocratica lombarda (il casato, d’origine veronese, nasce nel 1320 con l’omonimo Luchino Dal Verme, capitano di ventura, poi infeudato ai Visconti), Maino, questo il nome di battaglia di Dal Verme durante la Resistenza, ha preso parte alla guerra di Liberazione, contribuendo dopo l’8 settembre 1943 all’organizzazione delle prime formazioni partigiane operanti in provincia di Pavia. Maino, prima come comandante dell’88ª Brigata Casotti e poi, come comandante della Divisione Garibaldina Antonio Gramsci, ha dato un contributo fondamentale alla Resistenza armata nell’Oltrepò Pavese. Lo ricordiamo con affetto e orgoglio, attraverso l’emozionante testimonianza di Ivano Tajetti.
“Tutte le volte che uomini e donne si stringono intorno a qualche cosa, che sia un altare, che sia una bandiera, che sia un discorso, che sia una mensa, un battesimo, un funerale è sempre un momento estremamente importante. Prima di tutto perché l’uomo esce dal suo interesse personale, esce dal suo rischio di vita e non è più un individuo, è un NOI. Quando gli uomini diventano un NOI sono una forza enorme, dobbiamo ritrovare la capacita di essere un NOI”
Luchino Dal Verme – Nome di battaglia “Maino”
Milano, 25 novembre 1913 – Torre degli Alberi (Pavia) 29 marzo 2017
Salgo a piedi lungo un sentiero di ciottoli, pini silvestri e olmi di contorno, odore di resina e il ronzio delle prime api al lavoro risvegliate dal tiepido sole preannunciante primavera.
Imponente s’affaccia la pietra del maniero, greve sotto il peso di secoli di storia, un cortile di incastri tra roccia e mattoni, una bara di legno chiaro, appoggiata sulla nuda terra, un ramo di timidi fiori, un piccolo segno del bosco appoggiato sul legno, in lontananza musica classica, forse un requiem, un salutare, un bisbigliare, un cenno d’occhi e di mani tra i presenti che stranamente sostano lontano dalla bara, come un voler non disturbare, un non voler interrompere il sonno senza risveglio.
Guardo il cielo dell’Oltrepò Pavese, un azzurro che riconosco, orizzonti da riempire occhi e cuore.
Mi rivedo, bimbo, un cappello in testa, un gelato in mano, rumore festoso di “gioco delle bocce”, domeniche d’agosto all’esterno di un’osteria di Casa Marchese, ad ascoltare storie e guardare giganti, che ridevano, cantavano, litigavano e che interrompevano discorsi fingendo di dissetarsi con un bicchier di vino, ma spesso era solo perché la voce si incrinava e le lacrime spingevano per uscire. Ciro (Carlo Barbieri), Tino (Agostino Casali), Edoardo (Italo Pietra), Paolo (Murialdi), Clemente (Ferrario) e il contorno attento di partigiani, compagni e amici, che spesso pezzetti di storie, ricordo di visi e azioni, conoscevano proprio per averle vissute e toccate con nervi e sangue.
Nessuno di loro ora e qui a salutare nel suo ultimo viaggio il Comandante “Maino”. “Allora, Luchino, devi avere un nome di battaglia, passava una bicicletta e sul telaio brillava la scritta Maino, ecco pronto… mi chiamerò Maino.” Anche se poi i contadini, le donne, e i bambini quando vedevano passare, là sul crinale della collina uomini in armi che cantavano, dicevano; “Guarda, passano i partigiani Dal Cònt, vanno a combattere contro i fascisti, vanno a regalarci la libertà”.
I Dal Verme, una storia lunga secoli, una storia di primogenitura della nostra terra. I Conti Dal Verme, l’aristocrazia, la nobiltà, condottieri, capitani di ventura, generali, esploratori, precettori di Casa Savoia, monarchici e cattolici, benefattori e conquistatori, un libro enorme di genealogia ed araldica dal 1300 ai nostri giorni.
Luchino, ingegnere, laureatosi al Politecnico di Milano, Ufficiale Maggiore di Reggimento Batterie a Cavallo. Luchino, che comanda i “suoi uomini” sul fronte francese, jugoslavo e poi al fronte russo, dove comprende che le parole credere, obbedire, combattere sono la negazione della propria scelta di vita, e che la guerra è solo un servizio ai nazisti. L’otto settembre 1943 lo coglie a Mordano nella Romagna, vicino a Forlì. Si congeda consegnando un foglio a tutti i suoi uomini, “Ha servito con onore il suo Paese”. Maledice i Savoia traditori, la vergogna del re “Bastardo”. Torna di nascosto alla sua dimora di Torre degli Alberi e per sei mesi fugge, ma non scappa dai fascisti, dai Savoia, dall’esercito, dalla chiesa, dai nazisti; fugge soprattutto da se stesso. Moriva la parola dovere e nasceva la parola coscienza.
“La mia decisione di diventare partigiano non fu facile, maturò lentamente, fu faticosa e sofferta. Dopo l’otto settembre gli uomini si trovarono di fronte a tre scelte; la prima, obbedire ai tedeschi, cioè non assumersi, per paura, nessuna responsabilità; la seconda, seguire il proprio interesse, tentando di tenere, senza compromessi, il piede in due scarpe; la terza soluzione significava aver capito, viceversa, che era indispensabile schierarsi e conseguentemente compromettersi. Chi accettò decise di portarsi su una linea di pulizia, di farsi libero prima di tutto dalla paura. Una risposta definitiva, perché si usciva dall’ordine di allora, si era ribelli all’ipocrisia e difficilmente la scelta dell’impegno era una scelta qualunquistica o una scelta del meno peggio. Ebbi allora il coraggio della terza scelta e ringrazio il Signore di avermi dato un tale coraggio. La ripresa di contatto, in Oltrepò, con una gente povera, umile, che aveva capito l’ipocrisia della guerra e si stupiva che io non avessi capito che tutto quello che avevamo fatto era privo di valori, che non avessi capito che la miseria, la fatica, la vita stessa erano altre cose. Fu la semplicità di questa gente che mi fece superare la mia crisi”.
Moriva Luchino il Conte, nasceva Luchino il Ribelle.
Schietto, esperto d’armi, onesto, “vivace come un puledro”, patti chiari, non ci sono gradi sulla giacca, decidiamo insieme la linea, ma nell’azione comando io, mia la responsabilità nel bene ed eventualmente anche nel male. Maino diventa Comandante della 88ª Brigata Garibaldina “Casotti” per poi arrivare a comandare un intera Divisione Garibaldina, la Antonio Gramsci, con cui entrerà a Milano – “primi Partigiani della Montagna” – il 27 aprile 1945. “…Ebbi la responsabilità di comando di una formazione Garibaldi e il primo argomento di cui debbo e voglio parlare sono gli uomini con i quali ho condiviso rischi e responsabilità, in uno spirito di solidarietà e reciproca fiducia, che è certamente il ricordo più vero e più importante che mi sia rimasto. Non dimentichiamoci che la divisione Gramsci, di cui ebbi la responsabilità di comando, era di promozione comunista. Ebbene, non ho mai saputo quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per tutti noi, per la libertà di ciascuno di noi. Questo ci impone di sapere cosa ne abbiamo fatto della nostra libertà o per lo meno che cosa intendiamo farne…”.
Io ora potrei fermarmi, e ritornare bambino, e raccontarvi per giorni piccole storie che hanno fatto la Storia grande, storie ascoltate, storie che girano, girano e poi sempre ritornano, storie dei partigiani dell’Oltrepò Pavese, di Milano; di Maino e dei suoi compagni, storie di fame, paura, morte, tortura, di correre senza fiato, di castagne secche e paglia, di pidocchi e gelo, di stupore, lacrime, di donne stuprate dai “Mongoli” e dai fascisti, della Sicherheits e di Fiorentini, di scarpe rotte, uva e polenta, di un sorriso di una ragazza, di un fazzoletto rosso, di crudeltà e dignità, di colori e vento.
«Il 7 di agosto 1945 è un caro ricordo di vita partigiana, quel giorno abbiamo disfatto e decimato brigate e divisioni, memoranda vittoria. Quel giorno si è stabilito che fra di noi, del Pavese, non ci sia posto né carta per i mille e mille dell’ultima ora.
Così certe formazioni di città e di pianura, venute in fame e numerose all’ora delle sfilate, sono state rastrellate d’amore e d’accordo, a tavolino, nome per nome. In provincia non ci saranno che 2.000 certificati di partigiani, e 1.000 da patrioti (i caduti sono trecentotrentadue). Per esempio, una divisione di pianura che vantava 800 armati, avrà cinquanta certificati. Ma fra tanto sperare e parlare di certificati, anzianità, benemerenze, dico che nessun foglio di carta spessa e nessuna patacca valgono il ricordo della nostra bella vitaccia lassù, partigiani di questa umile Italia.
Quando saremo a Varzi
nella caserma alpina
ti scriverò biondina
la vita del partigian.
La vita del partigiano
si l’è una vita santa
s’ mangia, s’ bev, as canta
pensieri non ce n’è.
Pensieri ce n’è uno solo
l’è quel della morosa
che gli altri fanno sposa
e mi fo il Partigian.
Con la faccia sull’asfalto.
Dunque, questa canzone è nata un anno fa, d’agosto, nell’Oltrepò Pavese, quando là, su per le montagne che guardano Varzi, e vedono il grande mare di terra bianca e verde fino alle Alpi, vivevano tre brigate, e non avevano avuto neanche un lancio.
Eravamo tre brigate, eravamo mille armati, eravamo padroni di una zona libera fatta di sette valli, di ventidue comuni, di cinquantamila abitanti; ma il magazzino armi e munizioni era ancora sulla via Emilia, ogni arma un agguato, così tanti ragazzi, come Armando, Bianchi e Walter, sono morti con la faccia sull’asfalto. Non avevamo avuto neanche un lancio. Da Pometo capitale della Matteotti, da Zavattarello garibaldino, dal vecchio bel Romagnese tutto ribelle, scendevano a sera i gialli camion partigiani della Wehrmacht verso gli agguati al Po e lungo la via Emilia.
Ecco Alfredo il moro col cappello alpino, ed ecco, col berretto da SS, Fusco, che quasi ogni notte si guadagna una uniforme, e Maino senza cappello, Conte Luchino Dal Verme garibaldino. Ed ecco il padre dei garibaldini pavesi, è quel pallido ragazzo sui vent’anni, col braccio al collo in una fascia rossa: si chiama Americano, ed è italiano, studente, comunista. Quello in piedi che ride senza denti, porta scritto con filo d’oro sulla camicia rossa “Caramba dominatore dei falsi profeti”, ma una sera le brigate nere lo prenderanno vestito da prete in una osteria di Casteggio, e andrà al muro come spia.
Ragazzi morti, ragazzi vivi, ormai sembra un sogno, ma chi ricorda quelle sere piene di fisarmoniche, sten, ragazze, buoi squartati, polente, automobili, camicie rosse, mele cotte, scabbia, pidocchi, messaggi speciali, sangue di Giuda, sigarette tedesche, cioccolato americano, cappelli alla garibaldina, ex prigionieri inglesi, capisce perché certi ragazzi, che in montagna hanno combattuto per la libertà; oggi sono quasi prigionieri di quel sogno.
Verso l’alba si sentivano i motori, e allora, per esempio a Romagnese, la gente correva al vecchio muro del castello, dal muro guardava lontano come dal ponte di una nave.
Ecco alla svolta il ’34 della Sesta Brigata, cantano, c’è il bandierone delle nottate d’oro, questa volta sono sacchi, saranno sacchi di zucchero, ecco anche un camion giallo che deve essere l’ultima preda; si vede ruzzolare una forma di parmigiano, ci sono quattro tedeschi, quello è un ufficiale della repubblica. Il comandante della SAP corre a far suonare a festa il campanone; il comandante che si chiama don Alberto Picchi, parroco del paese».
Caro Maino, quanti sogni, quante speranze, quante fatiche! Avrai ancora adesso lì dove sei, il segno di un calcio nella gamba? Tre dei tuoi “ragazzi” erano stati feriti solo qualche ora prima, strano… Si parlava ormai di libertà, di guerra finita… Milano, le scuole di viale Romagna. Le aule sono i dormitori per i partigiani dell’Oltrepò, la portineria diventa la sede del Comando di Zona. C’è una branda e c’è un telefono che funziona. E dal quel telefono arriva, la sera del 27 aprile 1945, una chiamata per Edoardo e Maino da parte del Generale Cadorna. Devono recarsi subito in via del Carmine, al “Palazzo del Comando Militare” dove da poche ore si sono insediati i Comandanti del CVL. Un’ora dopo, in viale Romagna squilla di nuovo il telefono. È Italo Pietra; spiega a Murialdi che lui e Maino hanno deciso che bisogna preparare subito un drappello di partigiani per un “impresa importante e delicata”. Si scelga “insieme a Ciro” una dozzina di montagna, i più affidabili, i meno emotivi. Quei ragazzi di montagna saliranno insieme a Walter Audisio, Aldo Lampredi e a “Riccardo” Alfredo Mordini, il compagno della guerra di Spagna, il fratello e “maestro” di lotta partigiana di Maino.
Quegli uomini chiusero i conti con il fascismo, eseguendo la condanna a morte di Mussolini e dei gerarchi catturati sul lago di Como. E fu proprio in quell’ora di discussioni, ordini e contrordini in via del Carmine, che Edoardo colpì con un calcio agli stinchi sotto il tavolo Maino, per farlo tacere, lui, Luchino, che avrebbe ribaltato il tavolo davanti ai grandi “Comandanti” per fare le cose per bene, Maino a cui sarebbe bastato un piccolo ordine per scattare e partire, costi quel che costi. Un calcio che Luchino capì dopo, “Basta, Maino, hai dato tanto, tantissimo, non andare a morire ora, ora arriva il tempo della libertà”.
Maino che tornò alla sua casa, che festeggiò con i contadini, la sua gente, la Liberazione l’otto maggio, con polenta, merluzzo e un bicchiere di Bonarda. Maino che vide arrivare i vecchi del paese, con i carri e i buoi, su cui ritornavano a casa, i suoi mobili, la macchina da cucire di sua madre, una federa con lo stemma di famiglia, piccoli oggetti strappati e nascosti ai nazisti, ai fascisti che avevano fatto scempio del maniero durante i loro saccheggi e razzie. Una sincera prova d’amore e riconoscenza verso Dal Cònt che era solamente uno di loro. E da allora Maino diventò contadino, allevò pulcini e mucche, fece nascere vitelli e curò l’uva e il fieno, non lasciò più Torre degli Alberi; tanti lo cercarono, gli promisero scranni al Parlamento e al Senato, ma lui ormai era un ribelle, un partigiano, un contadino, leggeva i giornali tutti i giorni, s’arrabbiava, pensava che avrebbe rifatto tutto, nonostante tutto, ma sperava sino al suo ultimo giorno di vita terrena che tutto quello che lui e i suoi compagni avevano fatto sarebbe servito ad un Italia migliore, e si sa i sogni sono l’ultima cosa a morire.
Le foglie nel bosco tornano a coprire il cielo, le stagioni ritornano, il vento continua a soffiare, per chi tanto ha camminato, una sosta lì, tra il sasso e il ruscello, si prende fiato, si pensa al tempo passato, ma un fischiar del cuculo interrompe i pensieri, e ora di riprendere il cammino, mai fermi, mai domi… Buon viaggio, bella ciao, tienici per mano.
Ivano Tajetti, ANPI Provinciale Milano
Intersezioni e incroci
- “Il coraggio del NO. Figure e fatti della Resistenza nella Provincia di Pavia” A cura di Ugoberto Alfassio Grimaldi. Editrice Amministrazione Provinciale di Pavia.
- “L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, Partigiani, popolo in una provincia Padana. Pavia, 1943 – 1945” Giulio Guderzo. Il Mulino.
- “Fuochi nell’Oltrepò” Annibale Sclavi. Guardamagna Editore in Varzi.
- “La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po” Ugo Scagni. Edizioni Guardamagna.
- “La Traversata. Settembre 1943 – Dicembre 1945” Paolo Murialdi. Il Mulino Intersezioni.
- “I Conti Dal Verme. Tra Milano e l’Oltrepò Piacentino.” Fabrizio Bernini – Cesare Scrollini. Gianni Iuculano Editore.
- “Noi Partigiani dell’Oltrepò” Un film di Ivano Tajetti. Sezione ANPI Barona Milano.
- “Le cento primavere di Maino” Video di Aurelio Citelli. Produzione Associazione Culturale Barabàn.
- “Luchino Dal Verme – Testimone della Storia” Davide Bonaldo. Video a cura della Libera Associazione Sesta Zona.
Pubblicato giovedì 25 Maggio 2017
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