«Dove c’è un bambino che può sopravvivere noi agiamo prontamente, perché dobbiamo salvarlo, mentre dove vi è un feto che non può sopravvivere allora non diventa più parto prematuro ma diventa aborto. E i colleghi ginecologi obiettori si rifiutano di intervenire, perché se intervenissero dovrebbero procurare la morte del feto per salvare la vita della madre. Quindi la vita della madre, sganciata da quella del feto, perde improvvisamente importanza». Elisabetta Canitano, ginecologa non obiettrice, presidente dell’Associazione Vita di Donna (www.vitadidonna.it) si occupa della salute femminile da molti anni e riceve ogni giorno decine di mail e telefonate da tutta Italia con richieste di aiuto da parte di donne che non vedono rispettati i loro diritti.
La morte della donna incinta di due gemelli all’ospedale Cannizzaro di Catania ha scosso l’opinione pubblica. C’è un’indagine in corso che accerterà quanto avvenuto, ma quello che sappiamo è che una giovane donna è morta di sepsi e i due feti che portava in grembo sono stati estratti senza vita. I familiari della donna accusano il medico di turno di non aver agito prontamente per salvare la vita della paziente perché dichiaratosi obiettore di coscienza.
Il ginecologo avrebbe detto ai familiari “finché è vivo non intervengo” quindi finché non fosse cessato il battito di entrambi i feti. La direzione dell’ospedale rigetta le accuse.
Intanto gli ispettori inviati dalla ministra Lorenzin nella loro relazione hanno scritto che non vi è correlazione con l’obiezione di coscienza e che alla donna sono state date cure adeguate. La magistratura accerterà quanto accaduto e le responsabilità.
C’è un secondo fatto, però, che emerge chiaramente da questa storia: nel reparto dell’ospedale Cannizzaro dove Valentina Milluzzo ha perso la vita, dodici medici su dodici sono obiettori di coscienza, il 100%, come ha dichiarato il primario.
La vicenda di Catania ha mostrato una situazione-tipo di un reparto ginecologia in Italia. Infatti, stando ai dati forniti dal Ministero della Sanità, in Italia i ginecologi obiettori negli ospedali pubblici sono circa il 70%. Con punte di oltre il 90% in Molise e in Basilicata, per non parlare di Sicilia, Puglia e Lazio dove gli obiettori sono più dell’80%.
Dottoressa Canitano, che idea si è fatta sul caso della donna di Catania?
I dati che abbiamo su questa storia non ci consentono di dire se la donna sia effettivamente morta per un ritardo o se la sepsi fosse già avanzata. Inoltre, non sappiamo se le acque fossero rotte già da giorni o se si fossero rotte in quel momento. Questo per noi fa una grande differenza. L’abitudine di lasciare le donne in gravidanza da poche settimane – come la 19ª – con il sacco rotto, senza intervenire finché c’è il battito è purtroppo diffusa negli ospedali religiosi e negli ospedali in cui si fa obiezione di coscienza. Mi rendo conto che la cosa sia difficile persino da immaginare, però vorrei assicurare che questa attitudine di un certo numero – non tutti per carità! – di colleghi obiettori, di ritenersi esenti da qualunque tipo di intervento in presenza di battito, è diffusa. Abbiamo per il momento solo la parola della famiglia che afferma che il collega ha detto “io sono un obiettore, non posso intervenire finché c’è il battito”. E se questa informazione venisse confermata sarebbe abbastanza inquietante. Ciò nonostante è già avvenuto questo: quattro o cinque anni fa una donna, che ha chiesto l’aiuto della nostra associazione, ha avuto il sacco rotto a 19 settimane in un ospedale religioso. Le è stata tentata una amnioinfusione che è fallita, perché queste amnioinfusioni precoci falliscono quasi sempre, dopodiché la donna è rimasta con il sacco rotto ricoverata a rischio di sepsi quasi otto giorni. Tutte le mattine i miei colleghi passavano e dicevano “oh poveretta, succede solo in Italia…” ma la donna si trovava in un ospedale religioso. Non succede solo in Italia, succede laddove la struttura è religiosa.
Cosa è accaduto alla donna?
A un certo punto questa povera signora è andata ad Atene, cioè è venuta a prenderla una ginecologa dalla Grecia e l’ha portata lì a fare l’aborto terapeutico. Così per 4.000 euro questa ginecologa le ha salvato la vita. Dove non è accaduto, come in Irlanda a Savita, morta di sepsi (nel 2012, a Savita Halappanavar venne negato l’aborto perché l’Irlanda è un Paese cattolico e la giovane morì di setticemia. Il caso fece il giro del mondo, ndr). Anche la donna di Catania è morta di sepsi.
Quindi, fuori dal caso dell’obiezione di coscienza, per una infezione del genere occorre intervenire in poche ore?
Certo; in caso contrario è omissione di soccorso. Un collega che non interviene prontamente non può fare il medico. Perché se è vero – gli accertamenti ci diranno se è vero – che nel caso di Catania la donna aveva già segni di sepsi e si è aspettato a estrarre questo feto tre o quattro ore con il sacco rotto perché c’era il battito, è molto grave.
In caso di sospetta sepsi s’interviene immediatamente ma per un sacco rotto, che noi sappiamo essere un rischio di sepsi drammatica e mortale, si interviene entro 48 ore. Allora perché le donne con sacco rotto e con feto non sopravvivente (Fetus not viable) non vengono protette? Le indagini sul caso di Catania ci diranno se il sacco era rotto o no, ma sono 30 anni che vediamo i sacchi rotti a 17-18-19 settimane di gravidanza con donne lasciate lì perché il feto aveva il battito. E adesso va peggio. Non c’è niente da salvare perché questi feti non possono sopravvivere.
Perché accade questo?
Il nostro diritto alla salute è sempre meno garantito. Perché in Italia tutte le strutture laiche stanno finendo in mano a obiettori, a primari non confessionali. In Lombardia, per esempio, i direttori di Unità operativa complessa negli ospedali sono di Comunione e Liberazione. Il glorioso reparto di fecondazione assistita Sant’Orsola di Bologna, che era diretto dal dottor Carlo Flamigni, ora è gestito da una cattolica, consigliera della nostra Ministra della salute. Nel Lazio, per esempio, abbiamo quattro punti nascita pubblici, più l’ospedale Casilino di Roma che è privato, diretti da medici non obiettori ma confessionali. È una battaglia: uno di questi medici ha già dichiarato che non farà gli aborti terapeutici. Allora, io mi domando: le Regioni a direzione laica dove stanno?
Nel Lazio, con presidente Zingaretti, una donna con un feto con una malformazione e che ha bisogno di diagnostica e di aborto terapeutico dove deve andare? Dov’è il percorso da fare? Dove sono l’ecografia e la consulenza genetica, la risonanza magnetica che poi portano alla decisione di fare un aborto terapeutico? Non c’è niente, le donne sono allo sbando.
Di recente, alla nostra associazione Vita di donna è arrivata la richiesta di una donna che in un ospedale religioso aveva avuto come diagnosi definitiva una gravissima malformazione celebrale al feto a 24 settimane + 5 giorni in maniera che non potesse più decidere di fare nulla in Italia.
Come l’avete aiutata?
L’abbiamo mandata ad abortire all’estero, a Lubiana. Quello che sta accadendo è molto grave: tutti i nostri punti nascita vengono man mano affidati a ginecologi obiettori di coscienza perché di fatto la Legge 194 non venga più applicata, cioè non sia più possibile materialmente. Rimane difesa da questi pochi, sei, otto ginecologi compresa me ormai vecchi, in procinto di andare in pensione. La regione Lazio, per esempio, ci dice che farà 600 assunzioni. Il concorso per i due non obiettori dell’ospedale San Camillo ancora non è stato bandito e comunque è per due precari che già lavorano lì. Quindi non è un aumento di personale. Ci è stato detto che sarà aperta una maternità di Tor Vergata perché così le ostetriche non dovranno più andare a fare le studentesse in un ospedale cattolico. Ma perché Tor Vergata, che è una università laica, manda le studentesse di ostetricia al Fatebenefratelli invece che in un punto nascita laico? Il direttore della Sapienza, per esempio, è andato a lavorare al Campus biomedico e viene dall’Opus Dei. Non c’è quasi più una situazione laica con ginecologi laici, magari anche obiettori, non provenienti da università confessionali in cui le donne possano andare a gestire una diagnostica prenatale con presa in carico per aborto terapeutico…
Però ci sono anche donne, come nel caso di Catania, che non vogliono interrompere la gravidanza.
Infatti, alle nostre pazienti a cui si rompe il sacco di un figlio desiderato a 18 settimane noi che cosa dobbiamo dire? Non ti ricoverare in un ospedale religioso perché metteranno a rischio la tua vita? Forse dobbiamo cominciare a dire loro questo. Il problema è che le istituzioni, che dovrebbero essere laiche, non proteggono le donne italiane.
Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi
Pubblicato lunedì 31 Ottobre 2016
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/quando-gli-ospedali-vanno-in-mano-ai-medici-obiettori/