In epoca fascista in Italia i crimini, i suicidi, gli illeciti amministrativi e contabili erano del tutto scomparsi, ma solo grazie al controllo dell’informazione: il fascismo moralizzatore e integerrimo, dunque, è una favola?
In parte è stata una favola per gli ingenui, ma una gran parte di italiani ha creduto che le cose andassero bene perché il discorso pubblico raccontava questo. Il fascismo moralizzatore si è autorappresentato così, ma ha anche demonizzato “l’Italietta liberale” precedente: è stata questa l’operazione propagandistica più interessante, stando agli esiti. Salvemini dimostrava, già in epoca fascista, che le bonifiche – per esempio – nell’Italia liberale erano paragonabili a quelle del regime, eppure ancora oggi la bonifica dell’Agro Pontino ad opera del duce è magnificata; questo per dire che già allora vi erano gli antidoti per la propaganda fascista. Questo, tra l’altro, è quel che vorrebbe fare anche questo libro, sfatare i luoghi comuni che perdurano da decenni.
Qual è la fortuna degli studi e delle ricerche sul tema della corruzione del fascismo e dei suoi intrecci con economia e finanza?
Il libro è scritto interamente da storici, sebbene di generazioni differenti: sul piano strettamente scientifico le cose non sono del tutto inedite, anche sugli aspetti di corruzione spicciola e di malgoverno; però mai c’era stata un’attenzione ravvicinata che tematizzasse il rapporto organico, secondo gli autori, tra dittatura-corruzione-affari-interessi privati in atti d’ufficio e appropriazioni di beni demaniali come fossero privatizzabili ad uso di pochi, tanto più pochi quanto – d’altro canto – si proclamava il regime di massa. La politica economica e industriale, così come IMI o IRI, sono stati sempre studiati, ma in modo settoriale, seppur egregio; la settorialità in questo caso risulta un limite per il fatto che l’imprenditore puro non esiste sotto il fascismo: è a doppio filo legato alle committenze governative, è legato al regime e con esso schierato, perché è molto profittevole fare affari con un governo con cui si hanno legami diretti. La novità di questo volume è forse mettere in luce il rapporto politica-affari-economia, che fino ad ora non era stato messo bene a fuoco. Si vuol dimostrare che forse molti, sotto il fascismo, erano più politici che imprenditori e lucravano sul ruolo politico che esercitavano, a partire per esempio da Giuseppe Volpi, che è uno dei personaggi biografati nel libro.
Il rapporto politica-corruzione è strutturale, sotto il regime di Mussolini. Nel libro si parla di un nesso sistematico fra politica fascista e ambiti finanziari ed economici, e si dice anche che, in generale, la corruzione è un tratto distintivo delle dittature. Quella fascista ebbe qualche peculiarità rispetto alle altre sue contemporanee?
Paul Corner, storico inglese da anni professore all’università di Siena, pone correttamente il problema in modo cauto, lasciandolo sotto forma di domanda (ma compito degli storici è anche porre le domande giuste). Tuttavia mi sento di rispondere che la corruzione è percepita come patologia solo se il sistema è democratico, sia pure imperfettamente, perché lì ci sono gli anticorpi: magistratura e informazione, per esempio, sono indipendenti. Il più grande scandalo dell’Italia liberale, quello della Banca romana e che costò quasi la carriera a Giolitti, fu denunciato ed emerse, venne a conoscenza dell’opinione pubblica, sebbene quella ristretta di allora. E nonostante il discredito verso la politica, che ha travolto il nostro Paese negli ultimi venti-trent’anni, la corruzione è sempre stata contrastata, si pensi a Tangentopoli e a Mani Pulite; quel che fanno le dittature è “nascondere la polvere sotto il tappeto”: quando Mussolini ordina all’Istat di non pubblicare più le statistiche sui disoccupati, ecco che miracolosamente scompare la disoccupazione in Italia; di non dare più notizia di suicidi, omicidi e infanticidi, ecco che scompare immediatamente tutta la cronaca nera. Questo è tipico delle dittature: la propaganda è una controinformazione sistematica e capillare che lava i cervelli di milioni di persone.
Corner la definisce “distruzione della sfera pubblica”: sono tutte varianti di quello che si può chiamare un sistema tendente al totalitarismo, imbevuto di un conformismo a livello di massa che rende tutti più creduloni, poiché tutti si abbeverano all’unica fonte monocorde di informazione, che è poi “contro verità”. La specificità italiana forse è che non è vero che il fascismo dia un taglio netto rispetto ai costumi dell’Italia liberale: in esso continuano il notabilato, il familismo amorale e si accentua il nepotismo. Basti pensare che la successione a Mussolini viene decisa banalmente da politiche matrimoniali: i capi famiglia Benito Mussolini e Costanzo Ciano fanno sposare Edda e Galeazzo! La famiglia più importante del regime, come ho avuto occasione di dire altre volte, non è quella Mussolini, ma la Mussolini-Ciano. Ecco dunque che il nepotismo conferisce a questa dittatura moralizzatrice e presunta modernizzatrice un tratto decisamente retrogrado e reazionario.
Molti nomi dell’economia e dell’imprenditoria in auge nell’Italia liberale restano tali anche sotto il fascismo.
Salire sul carro del vincitore avviene spesso, lo fa molta parte della classe dirigente, economica e industriale dell’Italia liberale. E paradossalmente qualche antidoto alla corruzione-patologia semmai il fascismo ce l’ha proprio grazie al quel poco di professionalità della magistratura e contabili ereditata dall’Italia liberale.
Parlando sempre di transizione, di qualcosa che permane nel cambio, si ricordano i gerarchi che dopo il fascismo non vennero mai chiamati a rispondere dei loro crimini, delle loro appropriazioni indebite. Questo è da addebitare a una magistratura fascista transitata nell’Italia repubblicana o a cos’altro?
All’inizio, subito dopo la Liberazione di Roma, viene istituito il Commissariato per l’Epurazione e si dà avvio al processo epurativo che nel ’45-’46 ancora è in atto – si pensi alle CAS (Corti d’Assise Straordinarie) che hanno compito perseguire i reati di collaborazionismo e il potere di comminare pene durissime, compresa quella di morte. Tra i vari, c’è anche un reato particolare, ossia quello di “profitti di regime”, che colpisce e sanziona i profittatori: alcuni vennero effettivamente condannati, anche se non sempre si riuscì a recuperare i patrimoni. Tutto ciò finì con la svolta netta che si ebbe nel ‘47, a causa della rottura dell’unità ciellenistica. Raffaello Riccardi, per esempio, giovanissimo fascista marchigiano, accumula un patrimonio personale notevolissimo e muore negli anni ‘70 tenendosi ogni centesimo di lira. Ciò fa ancora più specie se si pensa alle famiglie degli ebrei che riescono a scampare, a ritornare magari dai campi di sterminio; queste non riescono a riottenere il possesso dei loro beni o dei loro posti di lavoro in scuole e università, mentre alcuni grandi gerarchi arricchitisi riescono a scappare all’estero, e a rientrare in Italia quando le acque si calmano: si pensi a Dino Grandi, imprenditore agricolo in Argentina dove è fuggito, che poi rientra a Bologna morendovi tranquillo ultranovantenne. Ma pensiamo anche agli eredi Ciano, che mantengono tutto il patrimonio accumulato dal nonno e dagli zii, o a Edda Mussolini che mantiene tutti i diritti d’autore del diario del coniuge, i cui originali non sappiano dove siano conservati ma che fruttano ancora molti denari. È una storia complicata, e senz’altro amara.
Il saggio ricorda che per capire la corruzione durante il fascismo è importante comprendere il nesso centro-periferia: come mai proprio in periferia proliferano i pesci medio-piccoli del fascismo che assurgono a ruoli potentissimi?
Ciò avviene perché il pragmatismo domina sull’ideologia, e questo si vede bene in periferia. Gli entusiasti giovani che vanno a Milano a frequentare la Scuola di Mistica fascista, sono una minoranza; gli studenti dei GUF, fanaticamente razzisti e antisemiti e imbevuti di ideologia dell’uomo nuovo fascista, della “dittatura degli onesti” (tra l’altro senza consistenza storica), che disprezzano la democrazia, sono una minoranza. In periferia invece, in un comune o amministrazione provinciale, è più semplice toccare concretamente i problemi reali, questo si capisce bene da un episodio veneto, studiato da Federico Melotto: a Verona l’amministrazione comunale fascista, per fare gli interessi di alcuni imprenditori privati interessati ad acqua, sabbie e ghiaie dell’Adige, fa deviare nel territorio di competenza il corso del fiume per favorire questi privati! È in casi simili che si tocca proprio con mano l’arrivismo, il rampantismo di questi giovani, uomini nuovi molto abili e concreti nel far carriera, e che magari salgono fino a livelli nazionali, però con fortissimi agganci territoriali e locali; si tratta davvero – se si sanno prendere i treni giusti – di carriere folgoranti (anche perché col partito unico non ci sono concorrenti!): Mussolini diventa presidente del consiglio a 39 anni, i suoi ministri sono spesso trentenni (Grandi, Balbo e Bottai per esempio). Tutto questo da Roma, dal centro della dittatura, non si nota bene, ma lo vedono chiaramente gli studiosi dagli archivi locali.
È pur vero al contempo che le rivalità fra gerarchi, soprattutto in periferia, sono asprissime.
C’è una grande guerra di dossier: ciascun gerarca importante ne raccoglie moltissimi – tramite suoi informatori – per avere armi potentissime di ricatto. Farinacci ne accumulava tantissimi e Mussolini a sua volta ne accumulava su Farinacci, Starace e molti altri. Ognuno conosceva i punti deboli altrui, il capo della polizia arriva persino ad intercettare le telefonate tra Mussolini e la Petacci; al duce tutto sommato questo continuava ad andare bene, perché era un punto di arbitraggio tra concorrenti e fascisti rivali, era più facile così far cadere in disgrazia personaggi sgraditi. Successe anche nel nazismo, con le varie purghe hitleriane.
La vulgata però dipinge ancora Mussolini come l’unico onesto circondato, suo malgrado, da corrotti: è così?
Innanzitutto il libro vuole mettere i lettori nelle condizioni di formarsi un’opinione fondata: tutti gli studi poggiano su ricerche d’archivio, indagate anche da altri – come lo studioso francese Didier Musiedlak, che ha documentato una regalia del Senato del regno a Mussolini, cui venne bonificato nel 1938 un milione di lire. Ma il punto è forse sottolineare che durante il fascismo si forma una classe politica nuova di politici di professione che non hanno mai lavorato e il cui lavoro è la politica professionale, come anche il carrierismo: questo nell’Italia liberale non c’era, esistevano i vari piccoli notabili ma non i politici di professione. Ai nuovi politici e burocrati fascisti restano, anche dopo il ’45, parecchi dei soldi fatti durante la dittatura. E anche gli eredi di Mussolini, la vedova Rachele, e i figli Edda, Vittorio e Romano, mantennero buona parte dei beni immobiliari di Benito.
Pubblicato lunedì 20 Maggio 2019
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