Cosa volevano dire quei visi emozionati, un poco ansiosi ma di un’ansia allegra, quei vestiti della domenica, quei capelli ben messi, che regalavano un’aria festosa alle file davanti ai seggi elettorali in quei primissimi giorni del giugno 1946? Per le donne, e per gran parte degli uomini, era la prima volta. Per le donne, la prima volta in assoluto. L’Italia arrivava ultima nei Paesi civili a riconoscere il voto al genere femminile.
Quali sentimenti? Quali speranze? Sicuramente la straordinaria sensazione di essere diventate qualcosa d’altro. Essere diventate cittadine non era del tutto chiaro, ma una cosa era sicura: si sentivano diverse, qualcosa, o molto, sarebbe successo. Una nuova vita sarebbe cominciata. Le speranze erano modeste, in mezzo alle macerie della guerra ancora davanti agli occhi. I desideri più grandi: una casa, un lavoro. Non erano diversi dai desideri degli immigrati che oggi arrivano tumultuosamente in Europa, per lasciarsi dietro, ancora una volta, come noi allora, una guerra.
Sarebbe toccato alle più esperte, a quelle che venivano dall’antifascismo, o dalla Resistenza, formulare gli obiettivi. Il voto era un primo passo. Da quel momento, bisognava ingaggiare una lotta. Per rimuovere ogni minima discriminazione, per essere pari. Una parola nuova circolava: emancipazione. Che significava diritti “paritari”, con qualcos’altro in più: si chiamava conciliazione tra lavoro e famiglia. Non per caso la prima legge in assoluto (legge Noce) si chiamava “tutela della maternità” e riconosceva alle madri periodi di assenza dal lavoro. Passo dopo passo ogni discriminazione venne squadernata, denunciata e cancellata: diritto al lavoro, parità salariale, diritto ad esercitare ogni professione e a percorrere tutte le carriere, ecc. Ai diritti “paritari” si aggiunse ben presto altro (ma stava già, in embrione, in quell’idea della conciliazione tra lavoro e famiglia, con quel vasto corredo di trasformazione della società che avrebbe consentito la cura di se stesse).
Fino a quando irruppe il femminismo e l’emancipazione fece un passo in più. Restò la parità ma si accompagnò alla liberazione. Ora le donne cominciavano ad analizzare se stesse e a fare, di quelle analisi, teoria. Prepotentemente presenti nelle piazze, finalmente certe della propria autonomia, proprietarie di se stesse, cambiarono l’idea stessa della politica. Che acquistò concretezza. La grande politica si insinuò nella vita delle persone. Ne indagò i lati meno conosciuti. Si ottennero leggi importanti, che resero più civile il Paese: divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia, violenza sessuale condannata come reato contro la persona.
Le donne presero sul serio le loro passioni e i loro desideri: oggi le possiamo nominare con nome e cognome e grazie a loro ci sentiamo tutte grate di far parte del genere femminile. Chirurghe e fisiche, avventurose frequentatrici del cosmo, architette ed economiste. Sembrerebbe finalmente spezzato il famoso tetto di cristallo che le imprigionava.
Su tutto questo, piomba qualcosa come l’orribile notte di Capodanno a Colonia. Una improvvisa e insolita regressione? Non proprio. Prima di quella notte, in cui amici, fidanzati e mariti restarono, se non proprio assenti, deboli e incerti, altri segnali ci avevano rivelato che la dignità, il rispetto, i diritti delle donne, stanno facendo passi indietro. Tornano pratiche credute sepolte fin dagli anni 60: i licenziamenti per causa di maternità, per esempio. La violenza sessuale che quasi ogni giorno descrive sulle pagine dei giornali gli infiniti modi di schiacciare la donna sotto il peso dell’inferiorità, del divieto della libertà. Lo sconvolgente reiterarsi della pratica del femminicidio come un moderno rituale di supremazia e di potere di vita e di morte. Per arrivare ad episodi minori, ma simbolici della carica di rancorosa ostilità verso le donne, come quello di Magenta, dove alcuni individui del gruppo di estrema destra avrebbero gridato alle donne dell’ANPI “Meritate di essere stuprate dai negri come a Colonia”.
Cosa è successo? Perché? Molte potrebbero essere le risposte. Fra le altre, forse in primo piano, l’idea che questo Paese abbia mancato un appuntamento importante: un esame approfondito della propria storia, l’indagine sui punti dove si annidano, nascosti da bei proclami, le verità più difficili da confessare, quelle che tengono il Paese imprigionato nell’arretratezza, e rendono così ardue le battaglie delle donne, ma non solo. Forse sarebbe necessaria un’autocoscienza profonda, capace di strappare tutti i veli sotto i quali ci nascondiamo, da decenni.
Marisa Ombra, partigiana, femminista, della Presidenza nazionale dell’ANPI
Pubblicato lunedì 7 Marzo 2016
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