Era il 1998, ricorreva il 60esimo delle leggi razziali, il Giorno della Memoria non esisteva ancora e l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia (Presidente Laurana Lajolo, Vicepresidente Tina Anselmi) insieme all’allora Ministero della Pubblica istruzione (guidato da Luigi Berlinguer) con il patrocinio della Camera dei deputati (Presidente Luciano Violante) promossero il convegno “L’invenzione del nemico. Sessantesimo anniversario delle leggi razziali”. L’iniziativa era stata progettata dal Comitato paritetico Mpi-Insmli per aggiornare i docenti sull’insegnamento del Novecento. La lezione dello storico Enzo Collotti smantellò tutti i luoghi comuni sull’argomento (in primis, il varo delle leggi antiebraiche sotto il diktat della Germania hitleriana) puntando il dito sulle responsabilità precipue del fascismo italiano, che ben prima del 1938 avviò la sua feroce politica razzista. Rigorose argomentazioni sui fatti, ancora attualissime. Vi proponiamo l’intervento con il gentile permesso dell’autore. Ndr
La politica razzista del regime fascista
Il tempo limitato che abbiamo a disposizione suggerisce di conferire al mio intervento il carattere di una introduzione di carattere generale che presenti la problematica della politica della razza nel contesto dell’evoluzione del regime fascista – in che cosa essa è consistita e perché si è sviluppata in quel determinato frangente – e che la collochi anche dal punto di vista della storiografia sul fascismo, che sicuramente per molti decenni ha trascurato la tematica che, oggi, a sessant’anni dalle leggi del 1938, si ripresenta in maniera prepotente all’attenzione degli storici e alla memoria civile. Come ho avuto modo di rilevare altra volta, gli studi sul fascismo e la stessa memoria pubblica hanno a lungo trascurato la problematica delle leggi razziali per una serie complessa di ragioni. Da una parte ha contribuito ad allontanare dalla memoria il ricordo delle leggi del 1938 la cesura dell’8 settembre del 1943; grazie infatti alla ben più dura fase della persecuzione avviata con l’occupazione diretta dell’Italia da parte della Wehrmacht dopo l’armistizio e l’uscita dell’Italia dallo schieramento dell’Asse e del patto tripartito, l’attenzione anche delle vittime è stata polarizzata interamente sui fatti accaduti nel periodo 1943-1945, che ha visto la deportazione di oltre 8mila ebrei dall’Italia, pochissimi dei quali poterono sfuggire ai campi di sterminio. Anche nella memoria ebraica, almeno sino ad un certo momento, è comprensibilmente mancata la percezione della continuità tra la prima fase – quella anteriore all’armistizio del 1943 – e la seconda fase della persecuzione. Ma oggi a nessuno più è lecito concentrare l’attenzione solo su quanto è accaduto dopo l’8 settembre del 1943, come se prima di quest’epoca il fascismo non avesse esso stesso promosso una estesa legislazione contro gli ebrei, che alla data nella quale entrò in vigore si presentava, dopo quella della Germania nazista, come la più imponente legislazione antiebraica esistente nel mondo intero.
La politica razziale del fascismo non fu introdotta per imposizione della Germania
La sottovalutazione del ruolo del fascismo nello sviluppo della politica contro gli ebrei è derivata anche in una parte degli studi dal sottinteso di attribuire la paternità della politica razziale all’influenza determinante della Germania nazista, come se da essa e da essa soltanto, quasi addirittura per sua imposizione, avesse tratto origine la legislazione del 1938. Questa sottovalutazione inoltre riusciva a nascondere la continuità, pur nell’evidente salto di qualità, tra la prima e la seconda fase della persecuzione – il passaggio cioè, come è stato efficacemente detto, dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite – e al tempo stesso, coprendo le responsabilità del fascismo nella prima fase, perveniva ad attenuare o addirittura a obliterare e negare le responsabilità del fascismo nella seconda fase, ossia le corresponsabilità della neofascista Repubblica sociale italiana nella stessa deportazione degli ebrei. Quali che siano infatti le differenze tra le due fasi è la presenza del corpo normativo predisposto prima ancora dell’8 settembre che ne assicurava, con la continuità dell’apparato amministrativo e la sopravvivenza del vecchio quadro fascista, la continuità nella R.S.I. e la disponibilità a collaborare con l’ulteriore radicalizzazione promossa dai nazisti.
Il nazionalismo e l’espansionismo coloniale si erano già retti sulla superiorità della razza
La campagna contro gli ebrei e la legislazione contro di essi non furono introdotte dal fascismo per imposizione della Germania. Esse furono iniziativa e prodotto autonomo del regime fascista, in un contesto europeo e internazionale, in cui, soprattutto dopo il 1933, l’esigenza di adeguarsi ai lineamenti politici che si stavano sviluppando in Germania rispondeva a una scelta di campo fondamentale, contro la democrazia e per la modifica ad ogni costo, anche a costo della guerra, dell’ordinamento di pace che aveva fatto seguito alla conclusione del primo conflitto mondiale. E tuttavia la spinta a una politica della razza nel fascismo italiano fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l’espansionismo italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come colonie di popolamento, ossia sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell’eccedenza demografica dell’Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane. Per questo la guerra d’aggressione contro l’Abissinia nel 1935-36 non fu l’inizio, ma l’occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell’Italia fascista, che poteva portare a un momento di sintesi e di unificazione di esperienze diverse, che il fascismo come regime stava ormai realizzando in settori particolari, dal razzismo nei confronti delle minoranze nazionali entrate sotto la sovranità dello stato italiano dopo la prima guerra mondiale (con particolare riferimento alle minoranze slave della Venezia Giulia, ma non solo ad esse), al razzismo praticato nei territori coloniali. Qui dopo la conquista dell’Etiopia – peraltro mai interamente conquistata per il sopravvivere di tenaci isole di resistenza e di guerriglia che mineranno profondamente il dominio dell’Italia ancor prima dei rovesci militari che nel 1941-42 dovevano decretare la definitiva sconfitta dell’impero – fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale, un vero e proprio prototipo di apartheid, come tutti gli studi più recenti consentono di caratterizzarlo.
Sin dall’inizio degli anni trenta l’inasprirsi della polemica contro le potenze coloniali tradizionali, Francia e Inghilterra che impedivano l’accesso all’espansione coloniale dell’Italia, comportò nell’ottica del fascismo la riesumazione di motivi che spostavano la polemica dal piano dello scontro di interessi tra potenze a quello del razzismo tout court, con l’accusa alle democrazie, e principalmente alla Francia, di essersi resesi responsabili, favorendo una politica di naturalizzazione delle popolazioni dominate, di una pericolosa contaminazione razziale, che minacciava l’integrità della razza bianca a favore dei popoli di colore. Il fantasma della contaminazione e la missione di difendere la razza bianca dal tradimento dell’occidente – cattiva reminiscenza spengleriana – entrarono nell’universo mentale del fascismo. E già all’epoca della guerra d’Africa Mussolini significò di volere giocare nei confronti delle democrazie occidentali anche la carta dell’antisemitismo.
L’antisemitismo fascista doveva cooperare alla costruzione del modello di “italiano nuovo”, che comportava la totale fascistizzazione della società
Se sicuramente la conquista dell’impero indusse il regime ad accelerare i tempi di un regolamento dei rapporti tra le popolazioni dell’impero per scongiurare l’ossessione del meticciato, non su solo allora che esso si accorse di una questione ebraica. Del resto, già a seguito del Concordato del 1929 che aveva accordato al culto israelitico lo statuto di semplice “culto ammesso” preludendo al nuovo statuto delle Comunità del 1931, era stata intaccata la piena parificazione degli ebrei italiani al resto dei cittadini italiani, una prima lesione alla realtà dell’emancipazione che era stata generalizzata con l’unità d’Italia. Nel 1934 a seguito dell’arresto di antifascisti ebrei (il gruppo torinese del quale faceva parte Vittorio Foa, che fu arrestato un anno dopo), si diede il primo segnale di una campagna generalizzata contro gli ebrei sulla base dell’equazione non sostenibile ebrei uguale antifascismo.
La lotta al diverso (l’ebreo) fu strumentalizzata all’accelerazione totalitaria che il regime avviò dopo il ’36
Nel 1937 l’esplosione della campagna contro gli ebrei, nel contesto della polemica contro le democrazie definite schiave della massoneria e del giudaismo, e del razzismo nelle colonie, cadeva in un clima di “spirito pubblico” già predisposto ad accettare il discorso razzista ed in cui fra l’altro era ancora viva l’eco di un’antica componente di antigiudaismo cattolico. Stabilire comunque il nesso tra razzismo coloniale e razzismo antiebraico e la continuità tra di essi è fondamentale per rendersi conto dell’assuefazione della maggioranza della popolazione al discorso razzista e della assoluta mancanza di aperte manifestazioni di dissenso, al di là di casi isolati.
Come si vede, la continuità che ho sottolineato del nesso razzismo coloniale-razzismo antiebraico aiuta a chiarire come il ruolo della Germania nella proclamazione delle leggi fasciste consiste nella sua influenza indiretta, mediata più che immediata, in quanto essa offriva la cornice europea entro la quale venne a collocarsi la persecuzione in Italia, non per semplice opportunismo del regime nei confronti del più potente partner dell’Asse, ma per consapevole scelta politica. Per allinearsi ad una realtà europea (evidenziata, oltre che dal caso del Terzo Reich, dagli sviluppi dell’antisemitismo e di relative normative in Ungheria, in Romania e in Polonia e, dopo l’Anschluss del 1938, dall’estensione delle leggi naziste anche in Austria), in cui nella lotta contro le democrazie plutocratiche, prima ancora che contro il bolscevismo, la lotta contro gli ebrei, con il carico di significati simbolici che la caratterizzava, non era soltanto un espediente propagandistico, ma la componente organica di un programma politico.
L’antisemitismo fascista si colloca così al crocevia tra l’inserimento, con la lotta ai “diversi”, in un motivo tipico del pensiero antidemocratico e antiegualitario della destra fascista e filofascista e la ricerca di una identità forte dell’“italiano nuovo”, tipica della fase di costruzione dell’impero. La costruzione dell’italiano nuovo comportava l’omogeneizzazione di una mentalità collettiva; la collettivizzazione di un modello fascista applicato agli individui e alla società, e l’irrigidimento di questo comportamento in un modello razzista. L’appello al razzismo coloniale non sembrò sufficiente per realizzare la mobilitazione razzista di cui il regime aveva bisogno per rilanciare la spinta volontarista e rafforzare il consenso intorno a sé. La possibilità di utilizzare direttamente la mobilitazione all’interno della stessa società italiana offerta dal fatto di additare l’ebreo come “il nemico fra noi”, fu la ragione ultima della riesumazione e addirittura dell’invenzione di un pericolo ebraico.
Sono i mesi in cui Mussolini persegue una “rivoluzione nel costume” degli italiani, e parla di una “terza ondata” della rivoluzione fascista per sferzare la borghesia italiana ad essere veramente se stessa con un linguaggio vagamente antiborghese, superficiale residuo della sua antica milizia socialista. È l’epoca in cui si vagheggia una maggiore rigidità degli strumenti del terrore in Italia e la creazione, sull’inasprimento dell’antico istituto repressivo del confino, di veri e propri campi di concentramento. In questo contesto, la campagna contro gli ebrei rivela un carattere essenzialmente strumentale, per creare l’obiettivo contro il quale convogliare la mobilitazione popolare per una più rigida fascistizzazione della società. Contemporaneamente, la campagna contro l’ebreo assume la funzione di creare un “nemico” e, al di là del nemico effettivo, la possibilità di agitare l’immagine di un nemico nel momento in cui, già alla fine del 1938, il regime marcia consapevolmente verso l’avventura bellica e la minaccia di guerra si fa sempre più incombente.
Per sintetizzare: la strumentalizzazione della lotta contro gli ebrei, al di là del generico connotato razzistico, assume grande rilevanza sia nel tentativo di rivitalizzare dall’interno il costume di vita fascista, sia nella sua proiezione verso l’esterno come creazione di un mito collettivo destinato ad assolvere primaria importanza nella preparazione psicologica della guerra. Null’altro che una anticipazione dell’immagine dell’ebreo come longa manus dello straniero e del nemico, che sarà diffusa alla vigilia e nel corso della guerra. In questo senso la questione del razzismo antiebraico si configura come una delle componenti di quel processo di accelerazione totalitaria (l’espressione è di Emilio Gentile) che la politica del regime avvia dopo il 1936.
Analisi delle principali disposizioni legislative contro gli ebrei a partire dal ‘38-39
Non ci soffermeremo in questa sede sulla ricostruzione puntuale dei passaggi che portarono all’emanazione dei provvedimenti legislativi contro gli ebrei, tanto meno sulla loro analisi filologica, rinviando per questi aspetti agli studi di Michele Sarfatti. Ci interessa piuttosto sottolineare, sulla base delle premesse enunciate, le modalità attraverso le quali il regime fascista pervenne di diritto e di fatto alla revoca dell’emancipazione degli ebrei, ovvero al diniego della loro eguaglianza. Sebbene uno dei primi provvedimenti legislativi riguardasse gli ebrei stranieri – si tratta del RDL del 7 settembre 1938 – esso fu nondimeno e proprio per questo estremamente significativo dello spirito illiberale e liberticida che ispirò l’intera legislazione antiebraica: contemplando l’espulsione immediata dall’Italia di tutti gli ebrei stranieri (una misura che in quella forma poneva l’Italia in testa alle norme più radicali mai emanate contro gli ebrei) il decreto annullava una tradizione di ospitalità e di garantismo, privando di un rifugio, ancorché “precario”, secondo la definizione suggerita da Klaus Voigt, gli ebrei che avevano trovato momentaneo ricetto o addirittura una nuova patria in Italia sottraendosi alla persecuzione dei nazisti o di altri regimi antisemiti. Un testo che, letto insieme allo norme sulla revoca della cittadinanza accordata a ebrei stranieri dopo il 1° gennaio 1919, fornisce intero il quadro della chiusura razzistica e nazionalista che caratterizzò l’intero pacchetto legislativo.
Lungi dall’avere un significato meramente agitatorio e propagandistico, le misure contro gli ebrei alterarono profondamente non soltanto la personalità giuridica dei destinatari delle norme persecutorie, ma la struttura stessa dell’amministrazione. Contemporaneamente infatti all’emanazione dei primi provvedimenti restrittivi dei diritti degli ebrei furono emanate le norme per la creazione degli organismi deputati a sovraintendere alla nuova sfera di competenza rappresentata dai nuovi soggetti a cittadinanza limitata, ossia dagli ebrei. Con RD in data 5 settembre 1938 fu data vita infatti presso il ministero degli interni a quella Direzione generale per la Demografia e la razza, nota agli studiosi come la “Demorazza”, che rappresentò il cervello burocratico e amministrativo, ma non per questo meno perverso, della persecuzione, dal quale scaturì quella congerie di disposizioni, generalmente in forma di circolari, che si risolvevano spesso in gratuite vessazioni a carico degli ebrei, a rendere sempre più analitiche le normative generali delle quali diremo subito. Il richiamo alla trasformazione dell’apparato amministrativo ha particolare rilievo non soltanto per sottolineare le responsabilità di un settore non secondario della burocrazia ministeriale nella messa in moto del meccanismo della persecuzione, ma anche perché pone in evidenza il carattere capillare con il quale essa fu praticata e la larga cerchia di complicità che comportò. Si stenta a immaginare oggi con quale solerzia funzionari dell’apparato della pubblica amministrazione dovettero dedicarsi a studiare i modi per avvilire e umiliare i concittadini e connazionali ebrei a sottolinearne in ogni modo la diversità moltiplicando i divieti a loro carico. Non avendo il tempo di farne neppure una pallida esemplificazione non mi resta che rinviare all’ampio e tuttavia non esaustivo florilegio di circolari pubblicato nel cinquantenario delle leggi razziali nel numero speciale della Rivista mensile di Israel. Una circostanza comunque che va ricordata anche perché spiega tra le altre cose la persistenza di atteggiamenti razzistici (anche nella loro indifferenza reale o apparente) nella pubblica amministrazione e le stesse traversie così prolungate nel tempo che accompagnarono l’abrogazione lenta e tardiva della legislazione antiebraica, come ha ricostruito attentamente Mario Toscano.
Il nucleo principale delle disposizioni legislative, che incisero profondamente sulla sfera giuridica degli ebrei limitandone drasticamente i diritti civili e talvolta anche umani, fu emanato tra l’inizio di settembre e il novembre del 1938. Queste disposizioni incidevano sulle libertà e sui diritti degli ebrei sia sotto il profilo personale che dal punto di vista patrimoniale. E non è casuale che il primo in assoluto dei provvedimenti destinati a codificare la separazione degli ebrei dal resto della popolazione riguardasse la loro espulsione dalla scuola pubblica, il RDL del 5 settembre 1939 per “la difesa della razza nella scuola fascista”, promosso dal ministro Bottai. Come sapete agli alunni ebrei fu proibito di frequentare la scuola comune a tutti i cittadini, così come ai docenti ebrei fu proibito di continuare a insegnare nella scuola che avrebbe dovuto essere la scuola di tutti. In questa sede credo che sia opportuno spendere qualche parola per cercare di capire che cosa significasse la scelta del regime fascista di colpire per primo il settore dell’istruzione. Lungi dall’essere un provvedimento dettato da esigenze pratiche, come talvolta si è voluto spiegare il suo iter cronologico, ossia l’urgenza che i provvedimenti per la scuola fossero varati prima dell’inizio delle attività scolastiche per non turbarne il regolare andamento, come se l’espulsione di alunni e docenti ebrei non fossero la turbativa e l’elemento di novità più gravi, il provvedimento aveva un preciso significato politico. La scelta della scuola come primo obiettivo su cui incidere non fu una scelta pratica ma una scelta strategica. Essa voleva indicare il ruolo prioritario che il regime attribuiva alla scuola come istituzione portante della trasformazione politico-culturale di cui la campagna per la razza era parte integrante. Cominciare dalla scuola – e ciò spiega quello che spesso viene definito semplicisticamente lo zelo del fascista Bottai – voleva dire porre in primo piano l’immagine e la missione dell’uomo fascista, che era stato sempre l’obiettivo di un processo globale di rigenerazione dal punto di vista fascista della società italiana, voleva dire puntare sulla mobilitazione di quei settori della società, in primo luogo i giovani, che si presumeva, e non sempre a torto, fossero maggiormente sensibili alle istanze volontaristiche e alle spinte giovanilistiche che il regime intendeva alimentare. Al di là del tentativo di umiliare una categoria di cittadini appartenente a una minoranza che nelle sue tradizioni culturali aveva la spiccata tendenza a collocarsi al di sopra della media di istruzione della generalità della popolazione italiana, l’intervento sulla scuola va visto però come il tentativo di coinvolgere un settore chiave della società in un processo di mobilitazione e di trasformazione di lunga durata nonché di grande risonanza politica ed anche emotiva.
Nella stessa linea va posta l’enfasi che fu portata nell’epurazione degli ebrei dall’insegnamento universitario e dalle sedi dell’alta cultura. Le ricerche specifiche che sono state condotte su alcuni atenei – Padova e Bologna e quella di imminente pubblicazione su Firenze – confermano con quale accanimento Bottai e l’amministrazione perseguirono l’obiettivo della cosiddetta “arianizzazione”. In un libro recentissimo, giunto in libreria nelle ultime settimane, “Scienza e razza nell’Italia fascista”, Giorgio Israel e Pietro Nastasi denunciano in maniera documentata quella che definiscono “la devastazione della comunità scientifica” provocata dai provvedimenti di espulsione del regime fascista. Pesanti dal punto di vista quantitativo, gli esiti della cosiddetta bonifica razziale lo furono ancor più dal punto di vista qualitativo, non solo perché costrinse all’abbandono o all’emigrazione cervelli di prim’ordine e di statura internazionale, ma anche perché soffocò la potenziale crescita di quadri scientifici in settori strategici della formazione tecnico-scientifica. Un’incidenza dunque di lunga durata, cui non pose rimedio neppure la pratica incerta reticente e parziale delle reintegrazioni dopo la liberazione. Una tematica complessa che coinvolge le molte responsabilità di tanti esponenti della cultura italiana, che non trovarono nulla da ridire nella estromissione o nella messa a berlina di altri autorevoli scienziati e intellettuali. Se è vero che relativamente pochi furono i corifei dell’ideologia razzista – ma non furono certo solo i firmatari del “Manifesto della razza” – la più parte del mondo della cultura ostentò solo indifferenza e acquiescenza; poche le dissociazioni nette e consapevoli, una constatazione dalla quale non si può prescindere nel fare il bilancio della persecuzione razziale. Del resto, non molto diverso si presenta il quadro della carta stampata, in cui giornalisti e pubblicisti di nome fecero a gara per non arrivare ultimi nell’opera di diffusione del veleno antisemita. Ebbene, per molti di questi giornalisti non vi fu soluzione di continuità tra prima e dopo del 1943, tra prima e dopo della liberazione. Anche questa è una circostanza che aiuta a farci capire perché vi sia stata tanta fretta nel cercare di dimenticare la campagna per la razza del fascismo e perché sia stata così facilmente accolta la tendenza a scaricare tutte le responsabilità sui tedeschi.
La personalità degli ebrei fu colpita nella sfera privata e nei loro rapporti patrimoniali. Il divieto dei matrimoni tra ebrei e appartenenti alla razza ariana o italiana (come talvolta fu definita a misconoscere addirittura l’appartenenza degli ebrei alla nazione italiana) e i limiti posti alle loro capacità patrimoniali furono i primi passi per la configurazione di uno statuto di cittadinanza limitata. Uno statuto che fu completato dall’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione e in particolare dalle forze armate – un provvedimento quest’ultimo che ferì in modo particolarmente offensivo i sentimenti di appartenenza nazionale di una comunità così fortemente assimilata quale era quella degli israeliti in Italia – e più gradualmente dalle attività professionali e commerciali, con il fine ultimo di ridurli all’indigenza o di costringerli all’emigrazione.
Operazioni politico-amministrative come il censimento degli ebrei dell’agosto del 1938 (e i successivi aggiornamenti) o la denuncia dei patrimoni ebraici se mai avevano un significato conoscitivo era sempre e soltanto in funzione persecutoria e demagogica, sempre nella direzione di sottolineare la separazione degli ebrei dal resto della popolazione italiana e di imporre un’immagine pubblica della loro diversità. Ma anche all’interno della fase 1938-1943 si potrebbero indicare linee di periodizzazione; una cesura sicuramente fu rappresentata dall’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Non fu solo uno dei culmini dell’accanimento propagandistico contro gli ebrei, fu anche il momento in cui più evidente si fece l’inasprimento dell’attenzione persecutoria e del tentativo di controllare da vicino gli ebrei. L’ordine di internamento per gli ebrei stranieri che non avevano ottemperato al decreto di espulsione del 1938, sommato ai provvedimenti di internamento per i cittadini degli stati con i quali l’Italia veniva a trovarsi in stato di guerra – e in taluni casi le due ipotesi si cumulavano – diede l’avvio all’espansione degli istituti repressivi e intimidatori del regime fascista, uno dei momenti in cui più indissociabile si rivelò l’intreccio tra politica della razza e stato di polizia.
Alla vigilia dell’entrata in guerra, con circolari telegrafiche del ministero dell’interno (in data 27 maggio e 6 giugno 1939), oltre all’internamento degli ebrei stranieri, veniva contemplato anche quello di ebrei italiani: “In caso emergenza – diceva testualmente il dispaccio – oltre ebrei stranieri (…) sarà necessario internare quegli ebrei italiani che per la loro reale pericolosità fosse necessario allontanare da abituali loro residenze”. Le prefetture e le questure venivano invitate a preparare gli elenchi di questi ebrei considerati pericolosi: un altro di quei censimenti dentro il censimento destinato a produrre gli innumerevoli elenchi di ebrei dei quali si serviranno dopo l’armistizio del 1943 tedeschi e fascisti della R.S.I. per rintracciare gli ebrei da deportare. Come sappiamo dalla prassi che fu attuata, la nozione della pericolosità fu interpretata essenzialmente in base all’antifascismo reale o presunto degli ebrei, in genere di una certa notorietà, che si intendevano internare. In altri casi è presumibile fossero presi in considerazione ebrei cui era possibile imputare reati annonari in tempo di guerra. Quanti siano stati gli ebrei così internati non è ancora possibile dire con esattezza: le cifre correnti, sicuramente più di duecento, probabilmente meno di mille, offrono oscillazioni molto larghe. Esse derivano dalla difficoltà di compiere per la ricerca accertamenti di questa natura in percorsi burocratici di per sé piuttosto complessi; un’altra discrepanza tra le diverse cifre risulta sicuramente dalla differenza tra le proposte di invio all’internamento e il numero effettivo degli invii in campo di concentramento o a domicilio coatto di fatto realizzati. Quello che deve risultare chiaro comunque è l’accresciuto livello di controllo nei confronti degli ebrei, tanto da procedere adesso anche alla restrizione della loro libertà personale. Il concetto che l’ebreo è cosa e non persona incomincia a farsi strada per questa via anche nella burocrazia fascista.
Nel corso del conflitto i segnali che l’aggressività del sistema nei confronti degli ebrei si andava radicalizzando furono di varia natura. Tra di essi vanno annoverate anche le disposizioni, in apparenza innocenti, che stabilivano la precettazione degli ebrei per il servizio del lavoro in tempo di guerra. Il 5 agosto 1942 la Demorazza dava inizio all’operazione, destinata anch’essa a produrre altre liste provincia per provincia, con una circolare nella quale si ribadiva fra l’altro il principio della separazione degli ebrei dalla società prescrivendo che gli ebrei da inviare al lavoro manuale non dovessero comunque lavorare in “promiscuità” con non ebrei. Apparentemente si potrebbe pensare che ammettendo gli ebrei al lavoro per la collettività si operasse una parziale reintegrazione nella società a loro favore. Di fatto, non era così, si trattava di una misura meramente demagogica se non addirittura punitiva, che mirava solo ad attirare l’attenzione sugli ebrei e ad additarli ancora una volta verso la generalità della nazione come profittatori che si erano sottratti ai sacrifici imposti dalla guerra, come se a escluderli dal servizio militare e dai posti di lavoro non fossero state le leggi dello Stato!
Un’iniziativa che si fece ancora più pesante e che doveva rivelare rutto il suo carattere punitivo allorché il 15 luglio 1943, dieci giorni prima del colpo di stato, il governo fascista decretò la mobilitazione totale degli ebrei, donne comprese, per il servizio del lavoro: non solo si allargava l’area degli ebrei da mandare al lavoro obbligatorio, ma si prevedeva addirittura la possibilità di creare appositi campi di concentramento cui inviare coattivamente gli ebrei mobilitati per il lavoro.
A quest’epoca Mussolini e il governo fascista conoscevano di sicuro che era in pieno svolgimento la “soluzione finale” nelle aree dell’Europa controllate dalla Wehrmacht, così come nel novembre del 1938 Mussolini conosceva i fatti e il significato della cosiddetta “notte dei cristalli” e tuttavia non si lasciò distogliere dal portare a compimento il suo progetto razzista. Non sappiamo con precisione se Mussolini e il governo fascista conobbero nei dettagli il contenuto della conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942, che prevedeva fra l’altro l’inclusione nel meccanismo della “soluzione finale” anche degli ebrei italiani. Ne conoscevano comunque le grandi linee e avevano avuto, attraverso dispacci di rappresentanti diplomatici italiani, messaggi e resoconti di militari italiani in grado di riferire ciò che accadeva nei territori occupati dai tedeschi o addirittura delle richieste che a proposito della consegna degli ebrei ai tedeschi avevano ricevute essi stessi, molteplici conferme. Ciononostante il governo italiano non solo non prese posizione e non si differenziò dal comportamento dei tedeschi, ma continuò in una politica di isolamento degli ebrei e almeno in un caso, in quello degli ebrei libici, di diretta deportazione dei libici nella penisola italiana al momento dell’evacuazione della Libia, che anticipò un concreto pericolo per la loro stessa incolumità fisica, come avvenne allorché essi caddero sotto controllo dei tedeschi (nei campi di concentramento in Toscana) e furono deportati nei campi di sterminio.
Gli eventi posteriori all’occupazione tedesca sono per la loro drastica evidenza anche quelli più noti. Per questo non ripeterò l’informazione su fatti presumibilmente conosciuti. Vorrei indicare piuttosto in quale senso ho accennato anche in precedenza alla continuità tra la prima fase della persecuzione e quella nuova sotto l’occupazione tedesca, per sottolineare le responsabilità e le corresponsabilità della R.S.I.
In primo luogo molti protagonisti della prima fase della persecuzione tornarono ad essere attivi, spesso con responsabilità superiori, anche nella nuova fase. Alcuni nomi tra i tanti: Buffarini Guidi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante e tanti altri.
In secondo luogo va sottolineata la radicalizzazione di impostazioni e istituti già esistenti nel contesto della legislazione fascista prima fase, muovendo dall’estremizzazione del processo di estraneazione giuridica, ideologica e sociale avviato nel 1938 ai danni degli ebrei: il 17 novembre del 1943 il manifesto di Verona del partito fascista repubblicano, che di fatto divenne la carta costituzionale della Repubblica di Salò, spingendo alle estreme conseguenze l’emarginazione degli ebrei, li dichiarava privi della cittadinanza italiana e in quanto “stranieri” attribuiva loro la cittadinanza degli stati nemici in guerra con l’Italia. Cittadini nemici, gli ebrei erano privati dunque di qualsiasi tutela giuridica da parte dello stato italiano e totalmente consegnati alla mercé dei tedeschi. L’ordinanza del 30 novembre 1943 con la quale Buffarini Guidi disponeva il raduno degli ebrei, compresi i cosiddetti discriminati, in campo di concentramento non poteva rappresentare perciò alcuna salvaguardia per le loro vite ma fu solo una trappola che ne facilitò la cattura da parte dei tedeschi. Di fatto il provvedimento segnò anche la fine della discriminazione.
Peggiore addirittura fu la sorte di quanti, già rinchiusi in campi di concentramento prima dell’8 settembre 1943, furono automaticamente consegnati ai tedeschi allorché con l’occupazione dell’Italia essi assunsero anche il controllo dei campi preesistenti al loro arrivo, prima di aprine altri (da Fossoli a S. Sabba).
Un’ulteriore radicalizzazione infine subì anche la disciplina dei beni patrimoniale degli ebrei. Con il decreto legislativo del 4 gennaio del 1944 la Repubblica sociale aveva disposto la confisca totale di tutti i beni appartenenti agli ebrei, anche se discriminati, che venivano così privati totalmente e definitivamente di ogni avere. Una circostanza che nel contesto in cui venne emanata e poi applicata la norma non aveva più risvolti soltanto demagogici ma assai ben più tragici. E in questo contesto non è possibile non accennare anche a un ulteriore risvolto non privo di interesse nella realtà italiana a segnalare la persistente continuità di istituzioni e spesso anche di personale: l’operazione di spossessamento totale degli ebrei fu demandata a quello stesso Ente di gestione e liquidazione (E.G.E.L.I.) che già aveva gestito la prima fase delle limitazioni parziali dei patrimoni ebraici e che dopo la liberazione avrebbe gestito anche le pratiche delle reintegrazioni dei vecchi titolari dei patrimoni confiscati. Un esempio, ma non il solo neppure in questo campo, di come la persistenza dell’istituto e dei suoi funzionari sia sopravvissuta al mutamento di regime politico, non sappiamo con quale spirito e con quale bagaglio di cultura politico-amministrative nei rapporti tra lo Stato e i suoi cittadini.
Una conclusione con la quale non intendiamo archiviare l’esperienza razzista del fascismo come una parentesi conclusa per sempre con l’abrogazione della legislazione contro gli ebrei, ma piuttosto sottolineare la necessità di non perderne né la memoria né la consapevolezza; anche per la lezione civile che possiamo trarne in questa nostra società che deve essere necessariamente sempre più aperta a molteplici influenze culturali e in cui spetta fra l’altro alle istituzioni scolastiche il compito di educare alla convivenza e di impedire il cumularsi di vecchi e nuovi odi di razza.
Enzo Collotti, già docente di storia contemporanea all’Università di Firenze, è tra i maggiori esperti della storia della Resistenza e del nazismo
Pubblicato martedì 23 Gennaio 2018
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