Andrea Pascale è un giovane studioso napoletano a cui abbiamo chiesto una breve ma compiuta ricerca sulle origini storico-filosofiche del razzismo. Andrea ha suddiviso la sua riflessione in quattro capitoli. Ecco il primo.
Ci sono macchie che sporcano il manto del mondo in modo indelebile. Ci sono macchie che vengono pulite, coperte, nascoste. Su alcune è possibile mettere toppe colorate per cercare di dimenticare. E poi ci sono macchie che continuano a diffondersi, come un oceano d’olio in una pozza d’acqua. Il razzismo è una di queste, ma bisogna fare molta attenzione nell’analizzare il fenomeno. Si rischierebbe di sottovalutarlo, di vederne solo la superficie, la spontaneità dell’irrazionalità, la “banalità del male”, come direbbe la Arendt. Ma qui non c’è nulla di spontaneo, nulla di irrazionale o banale: c’è una logica spietata che porta avanti il razzismo ed è il meccanismo di esclusione che ne è alla base da considerare in prima battuta. Scandagliare innanzitutto la funzione politica che trasforma un’idiozia in uno strumento di controllo generalizzato e assolutamente efficace, proprio perché frutto di un’apparente spontaneità che nasconde, al contrario, una complessa costruzione politica: ecco il primo compito per cercare di gettare un po’ di luce sulla questione. Per questo viaggio la guida più sicura sono le bellissime pagine che Michael Foucault ha dedicato al rapporto strettissimo che intercorre tra sapere e potere, l’analisi del regime di verità che il potere mette in campo per piegare i corpi e forgiare le menti.
Non bisogna infatti dimenticare il monito di Foucault: “non è possibile che il potere si eserciti senza sapere, non è possibile che il sapere non generi potere” [1]. Ma cosa si intende per sapere? Per arrivare a toccare la profondità del discorso di Foucault bisogna considerare innanzitutto che il suo è un pensiero che rifugge il piano metafisico per penetrare nella profondità delle carni, dei corpi e del qui e ora che li attraversa. Quando diciamo “questo è vero” facciamo, infatti, riferimento a un complesso insieme di saperi che danno spessore alla verità: non una verità statica e immobile, ma un continuo riformularsi del principio di veridicità che ci consente di dire “questo è vero”. In breve, citando le bellissime parole del Foucault di Gill Deleuze, “non esistono modelli di verità che non rinviano a un tipo di potere; non esiste sapere né scienza che non esprima o implichi in atto l’esercizio di un potere” [2]. E ogni tempo e ogni luogo esprimono un regime di verità specifico e assolutamente particolare: è chiaro che questo non può che essere il primo fondamentale passaggio per poter definire come la “verità” del razzismo venga veicolata e vissuta nel nostro tempo nella forma che le è più propria.
Non bisogna, tuttavia, credere di vivere in uno scenario orwelliano in cui un certo tipo di sapere, una certa verità, vengono imposte con il rigore della disciplina e la continua minaccia di una violenza – fisica o mentale che sia – o meglio, la violenza non è l’unico o più importante strumento attraverso cui un pensiero diviene verità. Il meccanismo attraverso cui qualcosa diviene “vero” è molto più subdolo e sottile: non viene “imposto” un regime di verità, vengono forgiate soggettività, corpi e menti che, in modo apparentemente spontaneo e incondizionato, sviluppano un certo tipo di pensiero, un pensiero che diviene parte integrante della realtà che li circonda, che ci circonda, impedendo di vedere le molteplici meccaniche di potere che definiscono quella verità. Infatti leggiamo nello stesso testo sopracitato che “il potere non è una semplice violenza non solo perché in se stesso attraversa categorie che esprimono il rapporto della forza con la forza, ma anche perché, rispetto al sapere, produce verità facendo vedere e parlare” [3].
Allora, prima di mettere a fuoco la dinamica potere-sapere, sarebbe il caso di considerare più da vicino la forma di potere descritta da Foucault. Questi parla infatti di bio-potere per definire la forma in cui si esprime il potere a noi contemporaneo: si tratta infatti di un potere che agisce sul bios, sulla vita stessa intesa come corpo vivente, carne pulsante. Si tratta di un potere che crea uomini, corpi e pensieri, un potere che crea diversità ed esclusioni, un potere che frammenta, spezza, sgretola i legami naturali degli uomini per poterli meglio controllare e gestire, e lo fa proprio attraverso la continua produzione di verità e visibilità. La forma di potere di cui parla Foucault quando dice biopotere, tuttavia, non è assimilabile allo Stato; al contrario, ciò che caratterizza il biopotere è una microfisica di potere, una costellazione di agenti di potere che tesse una fitta rete, articolata e complessa, che tocca i margini estremi del sociale, un imprecisato numero di ingranaggi che formano la macchina del potere, dalle scuole agli ospedali, dalla letteratura alla scienza, dalle carceri agli smembramenti razziali, sessuali, ai complessi sistemi di inclusione-esclusione. Si tratta, quindi, di un apparato che tocca ogni aspetto della vita – da cui il termine bio – e che agisce nel doppio movimento di reprimere e controllare. Non si tratta, tuttavia, di un sistema puramente disciplinare che impone, quindi, una disciplina dall’alto ma, come abbiamo già visto, di una forma sottile e capillarizzata di potere che stringe tra le proprie spire i corpi, come un serpente velenoso da cui è impossibile divincolarsi.
E allora come fa il potere ad utilizzare il sapere come una lama che dilania le carni e la coesione di queste? Lo fa attraverso discorsi di verità, imponendo regimi di verità ai soggetti e lo fa nei modi più diversi, dalla letteratura alla scelta didattica nelle scuole, dalla criminalizzazione alla emarginazione. Per poter controllare gli uomini, è necessario trasformarli prima in una massa informe, coesa ed omogenea. Ed il modo più semplice per farlo è creare un diverso in base al quale modellare la propria identità – che sia essa razziale, culturale, di genere. L’identità ha bisogno dell’esclusione per corroborarsi e potersi dare. C’è bisogno di un mostro [4] per affermare qualsiasi forma identitaria, c’è bisogno di mostri “per imbrigliare la loro potenza e legittimare il dominio su di loro” [5]. L’immagine proposta da Antonio Negri per mostrare questo movimento di sapere-potere è particolarmente suggestiva e vale la pena riprenderla: il filosofo fa riferimento, infatti, a La Tempesta di Shakespeare dove il mostro deforme che rappresenta il negro da sottomettere, Calibano, viene imprigionato in un albero da Prospero. La letteratura giustifica in questo modo il colonialismo e lo schiavismo definendo il mostro, lo spettro dell’antimodernità incluso ed escluso ad un tempo dalla modernità. Calibano, infatti, non viene scacciato da Prospero, ma, appunto, imprigionato in un albero, quale immagine vivida della piantagione cui deve essere imbrigliato lo schiavo, il mostro, terribile e necessario ad un tempo alla società schiavistica.
Ora il biopotere non agisce nello stesso modo del potere imperialista dipinto da truculente pennellate di colonialismo, eppure questa suggestione mostra in modo esemplare il movimento di cui si avvale anche il biopotere, che a un tempo include ed esclude creando nello stesso tempo saperi e, quindi, verità. Il razzismo, però, “è un’istituzione di potere che trascende la modernità” [6], a cui è comunque profondamente legata, come forza che sussiste nella postmodernità, come il ricordo bergsoniano, autoconservandosi. Un altro importante uso del potere viene chiaramente mostrato dal colonialismo della società schiavistica, ovvero il doppio volto del potere che da una parte dilaga con la violenza di un fiume in piena, sgretolando società, incatenando braccia e gambe alla terra come per Calibano, dall’altra plasma la coscienza dei colonizzati attraverso innumerevoli rappresentazioni delle popolazioni colonizzate, nella letteratura, nella storiografia, nei documenti amministrativi. Il colonialismo, infatti, non è stato possibile solo attraverso la violenza, ma soprattutto attraverso il tacito consenso dei colonizzati verso le rappresentazioni che innervano la società stessa. La “verità” che veicolava quelle rappresentazioni, faceva leva sulle caratteristiche “razziali” che avrebbero determinato un minor grado di “umanità” dei colonizzati e avrebbero, quindi, giustificato l’azione purgativa dell’occidentalità. Le religioni si sono mosse spesso in questa direzione cavalcando assurde ideologie [7] per discriminare i popoli colonizzati fino a considerarli meno uomini degli altri uomini. Il razzismo diviene qualcosa di più di un pregiudizio, qualcosa di più profondo e radicale: il razzismo si muove sul piano dell’ideologia che, a sua volta, muove il potere attraverso la verità del discorso da lui proposto e lo fa – tornando così al tempo postmoderno che attraversiamo – incorporando il razzismo nell’arcipelago di dispositivi in cui si frantuma il potere, nelle strutture amministrative, economiche e sociali del potere. Ma qualcosa è cambiato nel passaggio dalla modernità alla postmodernità ed è utile sottolinearlo per non rischiare confusioni: come osserva Negri, il razzismo da struttura ideologica della modernità, si trasforma in un sistema di pratiche, uno strumento di “governamentalità”. Non solo, quindi “un’istanza che proibisce e che reprime dall’esterno le soggettività, ma che, cosa assai più importante, le genera e le performa dall’interno” [8].
Oggi la giustificazione istituzionale al razzismo straborda da ogni angolo inondando il sapere, creando scempie verità, dalla propaganda politica, alle misure legislative, all’enfasi giornalistica, alla repressione di polizia. E la cosa più inquietante è che tutto questo non è un progetto imperialista alla “Quarto Reich”, dove basta tagliare la testa del drago: questa è un’Idra, e più teste si tagliano più ne crescono. Il fenomeno si diffonde su scala globale mosso da una simultaneità di parallelismi governativi che muovono pratiche razziali di esclusione e discriminazione, creando al contempo verità diffuse e inquinanti che producono forme di vita e soggettività svilite e corrotte. Di fronte a questa pioggia acida che irradia i saperi riproducendo prospettive miopi e deviate, bisognerebbe forse ricordare quello che gli haitiani, prima di essere mietuti e sepolti nel loro stesso sangue dalla falce occidentale, avevano imparato meglio di noi: tutti gli uomini sono neri, a prescindere dal colore della pelle [9].
Andrea Pascale
[1] M. Foucault, La microfisica del potere, p. 135
[2] Ivi, p. 59
[3] Ivi, p. 112
[4] Usando la suggestione proposta da Antonio Negri e Michael Hardt in Comune
[5] A.Negri e M. Hardt, Comune, oltre il pubblico e il privato, p. 101
[6] Ivi, p.82
[7] Come non pensare alle opere di conversione della Chiesa che accompagnavano la colonizzazione spagnola delle Americhe che, attraverso elaborate pratiche ideologiche applicate alla soggettività e alle forme di vita dei colonizzati, discriminavano la loro razzialità per valutare la loro capacità di divenire “buoni cristiani”e, quindi, esseri umani?
[8] A. Negri e M. Hardt, Comune,cit. , p.88
[9] Articolo 14 della Costituzione di Haiti, 1805
Pubblicato venerdì 7 Settembre 2018
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