Ogni tempo definisce un regime di enunciazione e di visibilità, che è ciò che ci fa dire “questo è vero”. Il regime di verità che mette in piedi un certo tempo e che fa vedere e dire, mettendo, quindi, in moto un truculento spettacolo di soggettivazione, si nutre di verità come quella portata avanti dal razzismo per agire, contemporaneamente, su entrambi i termini di questa efferata equazione: tanto il razzista quanto l’escluso, il discriminato, l’emarginato per la sua razza. Questo è il grande segreto del biopotere: scambiarsi e mutarsi col regime di verità richiesto per ammansire e aizzare al tempo stesso “la plebe”. Dal linguaggio, alle pratiche, il biopotere riproduce celle con cui segmentare gli uomini, impedirne gli incontri lieti, nascondergli il potenziale esplosivo e creativo che questi incontri possono produrre. Il biopotere crea, così, soggettività deformi costrette a schemi ripetitivi e irrazionali: da una parte, riproduce il soggetto razzista, soffiando odio nei polmoni, istillando rabbia negli occhi; dall’altra, riproduce il soggetto diverso, definendo il suo status di soggetto debole di cui avere pena e di cui approfittare al contempo. Odio da una parte e pena dall’altra, sono gli affetti [1] di cui si avvale il biopotere per riprodurre forme di vita addomesticate e pronte ad attaccare, addomesticate e pronte a soccombere. Più che odio, forse, sarebbe più corretto il lessico nietzschiano risentimento. Questo è precisamente il sentimento prodotto, una forma di infrollimento dello spirito, un sentimento da armento, gregge da guidare, ceche, sorde, mute, silenziose, arrabbiate e compassionevoli pecore da condurre al macello – che si tratti di bestie da macellare o di bestie che macellano –, ultimi uomini, colpevoli e innocenti, deboli e compassionevoli [2].
Il biopotere ci rende, così, docili. Proprio alla docilità è dedicata la riflessione di Pedro G. Oliva in “L’enigma della docilità”, in cui viene portata alla luce la pericolosità di questo sentimento, prodotto e riprodotto nei modelli di vita, le diverse opzioni a noi proposte, la caramella che preferiamo, ma solo tra quelle offerte dall’avida mano del potere. Questi modelli ci riproducono in movimenti ripetitivi e alienanti, ci costruiscono cechi, muti e sordi. Siamo ammansiti dai nostri modi di vivere, di sapere, di giudicare. La docilità trova una sua rappresentazione, piuttosto pittoresca, nei comuni cittadini tedeschi che hanno reso possibile l’olocausto. Infatti leggiamo, seguendo la descrizione proposta da Oliva, “un tratto che molti di noi condividiamo con loro, che ci accomuna a loro nel consentire l’orrore come nel cooperare in questo orrore: erano persone docili, misteriosamente e spaventosamente docili. Ogni docilità è potenziale omicida” [3]. Il male che agisce inconsapevolmente, meccanicamente, “la banalità del male” che Hannah Arendt descrive nella personalità di Eichmann, il gerarca che comanda la “soluzione finale”, il comune tedesco che guarda e acclama lo spettacolo, l’ebreo che nella speranza di un’evacuazione, accetta docilmente la propria esecuzione: tutto questo vede Oliva nelle pieghe della docilità.
Ma la docilità postmoderna è molto più pericolosa: nel totalitarismo in cui abita la banalità del male e quella forma di docilità, il potere agisce in modo totalmente differente. Dove, infatti, oggi vediamo una costellazione di poteri che agendo a più livelli, intessendo il sociale, innervando il corpo delle soggettività, troviamo la centralità del führer: dove nel Terzo Reich, come nel totalitarismo di stampo sovietico stalinista, troviamo la cultura di partito imposta e forzata, le censure, le Sicherheitsdienst naziste e il Keghebe sovietico, oggi troviamo saperi e pratiche di saperi, fabbriche di soggettività. In effetti il tratto discriminante è il tipo di potere che agisce: quello disciplinare e quello del controllo, come descritto da Foucault in “Sorvegliare e punire”, il primo che si attua nella spettacolarità della crudeltà, nel timore dell’opposizione, nell’imposizione di un pensiero; il secondo si perpetra nel silenzio della ripetizione, nel controllo del regime di verità, non nella disciplina delle verità. Il biopotere agisce ad entrambi i livelli, sia quello della disciplina che quello del controllo, riproducendo processi di soggettivazione e rapporti di forza e dando prova di incredibile violenza; lo fa frammentandosi in piccoli cristalli che rivestono ogni campo del sociale e chiudono le barriere, definiscono categorie criminali per lasciare che l’armento acclami la disciplina: d’altra parte, “senza delinquenza non c’è polizia. Che cosa rende sopportabile alla popolazione la presenza e il controllo poliziesco se non la paura del delinquente?” [4]. L’apparato legislativo, giudiziario ed esecutivo si nutrono di verità che proliferano da ogni angolo e giustificano ogni azione repressiva, anzi, la rendono necessaria agli occhi non più inconsapevoli, ma ben convinti della propria consapevolezza, della verità che essi stessi sono portati a produrre con i mezzi scelti dal biopotere.
Tutto questo è possibile solo segmentando l’unità, che sarebbe naturalmente percepita, creando categorie emarginate, creando “un certo numero di contraddizioni in seno alle masse, e una contraddizione principale è la seguente: opporre le une alle altre le plebi proletarizzate e le plebi non proletarizzate” [5]. Si tratta della creazione di un sistema penale, ma anche e contemporaneamente di tutta la rappresentazione letteraria, giornalistica, medica, antropologica, sociologica atte a costruire delle categorie di una morale universale che crei differenze e diffidenze tali da spezzare ogni possibile legame. Il discorso razzista è reso possibile – e al contempo corrobora – una serie di categorie create all’unisono da più punti, che passano dai giornali alle leggi, che muovono l’opinione pubblica, ne modellano la forma e il contenuto. La convinzione che il nemico stia bussando alle nostre porte, i tamburi della battaglia che si avvicina, ci vengono serviti ed imboccati come esche per topi. Le categorie emarginate, poste cioè al margine della società dove, comunque, rimangono, vengono delineate e disseminate ovunque quotidianamente.
“Il rom ruba” è una verità superficiale, che si presenta come una lenta stratificazione di significati: innanzitutto, il rom porta avanti uno stile di vita che viene percepito come diverso, nel senso dispregiativo che la supremazia identitaria presuppone; ad esempio, il rifiuto del lavoro e il nomadismo, in una società in cui il lavoro e la famiglia rappresentano i pilastri su cui questa poggia, viene tradotto come intolleranza, che nasconde a sua volta paura. Paura per il diverso, che, in fondo, è semplicemente un altro punto da cui guardare l’uomo, un altro modo di essere, che dovrebbe rappresentare pura fonte di arricchimento. Il desiderio dovrebbe essere il sentimento percepito. Eppure, la miccia viene preparata silenziosamente e sotterraneamente. La pressione è alle stelle, le notizie e i post enfatizzano i tratti razziali per sottolineare la pericolosità “etnica” di determinate categorie, la loro pericolosità. Le manovre e la propaganda governativa ci avvertono di stare molto attenti, dobbiamo tremare di fronte al diverso, dobbiamo annientarlo prima che lui annienti noi: “Sparagli Piero, sparagli ora”. D’altra parte devono essere davvero pericolosi se continuano ad essere respinti come un flagello, se gli Stati sono disposti a commettere crimini contro i diritti umani pur di mettersi al riparo dalle invasioni barbariche. E intanto, la dinamite prepara il suo rombo in silenzio, aspettano che il vento porti il fuoco che già brucia a un passo dalla bomba. Gridano che lo stupratore era algerino, che lo spacciatore di quartiere è reclutato nei centri di accoglienza, che il lavoro ce lo tolgono loro, che, alla fine, non riusciamo ad aiutare neanche noi stessi. E invece questi migranti aiutano il giro di racket e prostituzione, aiutano i parassiti e gli approfittatori, aiutano i veri “nemici”, che, divertiti, si nascondono dietro chi hanno già seviziato e avvinto. Alla fine, sono le grida che innescano l’esplosione. Odio che schizza da tutte le parti, con tutti i morti e feriti che la guerriglia urbana porta con sé. Frustrazioni e insoddisfazioni che si trasformano in spada, per colpire alla cieca come Aiace. E, come nella tragedia di Sofocle [6], la follia offre un macabro banchetto di bestiame trucidato, tra le risa del pazzo, convinto d’aver vendicato il proprio onore, uccidendo il proprio nemico. Nel silenzio, dopo la battaglia, tra la polvere e il sangue, forse qualcuno riuscirà a trovare la forza di guardarci dentro, tra la polvere e il sangue. Forse qualcuno riuscirà a piangere e forse le lacrime potranno pulire il velo che gli impedisce di guardare o, meglio, che distorce ogni cosa, come le ombre proiettate dalla caverna di Platone.
Andrea Pascale
Il primo articolo di Andrea Pascale sul tema del razzismo si trova qui: http://www.patriaindipendente.it/idee/cittadinanza-attiva/razzismo-tra-sapere-e-potere/
[1] Utilizzando il lessico Spinoziano: dove la metafisica viene scagliata sulla terra e trasformata in una fisica delle passioni, solo agendo sui pathes, sulle passioni, sulle affezioni, è possibile agire sulla libertà dell’uomo ed esautorarlo. Spinoza, così, viene sbalzato sul palcoscenico postmoderno dove il biopotere agisce tanto sui corpi, formandoli e riproducendoli, controllandoli e segmentandoli, quanto sui pathes che questi corpi rappresentano, definendo un piano di affezioni tristi che riproducono soggetti deboli, proprio perché privati della loro capacità di affettare ed essere affettati, della loro potenza e passione, del loro potere.
[2] Riprendendo qui il lessico proposto da Nietzsche in La Genealogia della morale, in quanto il biopotere, a ben vedere, non agisce poi così diversamente da come agiva, nella descrizione fatta da Nietzsche, la “morale d’armento, debole” e capace di indebolire anche “gli animi aristocratici”, creatrice di uomini dotati di un innato spirito mite, e , al contempo, di un’efferata crudeltà, repressa e trasformata, da risentimento a perdono.
[3] Pedro García Oliva, L’enigma della docilità, Nautilus Torino, 2014, p.19
[4] M. Foucault, La microfisica del potere, p.129
[5] Ivi, p.85
[6] Sofocle, Aiace – Elettra, tr. It. M. P. Pattoni, Bur Milano, 2010
Pubblicato venerdì 28 Settembre 2018
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